Inauguro
il blog parlando di un argomento serio che recentemente ha sollevato le
critiche, le denunce e l’indignazione di molte donne e non solo… Mi riferisco alla
sentenza della Suprema Corte di Cassazione che “ha abolito l’obbligatorietà del
carcere come misura cautelare estesa anche all'ipotesi del reato di violenza
sessuale di gruppo”, proponendo, in conclusione, “misure alternative”…
Tempo
fa, avevo scritto un racconto sullo stesso tema… e che oggi voglio riproporre
qui di seguito.
Tradita
Era
un pomeriggio di mezza estate. Ero di buon umore. Indossavo pantaloncini corti
di jeans, una maglia larga color lampone e degli occhiali da sole, quelli non
mancavano mai. Non per proteggermi ma - e non so, per quale ridicola
convinzione lo credessi - per apparire sfacciata.
Avevo quattordici anni compiuti nel mese di aprile. Per esattezza, il 25
aprile, la Liberazione. Un giorno davvero ironico, per me, oggi.
Dovevo
incontrare delle amiche per un gelato nel bar della piazza, a due isolati dalla
mia abitazione. Rifiutai di farmi accompagnare in auto da papà: sarebbe stato
imbarazzante. Soprattutto perché avrebbe dovuto raggiungerci pure Tommy con i
suoi amici. Tommy aveva cinque anni in più di me ed io volevo apparirgli bella,
sicura e alla sua altezza.
Per arrivare in centro dovevo attraversare un sottopassaggio. Erano le tre del pomeriggio e non c’era nessuno in giro: il caldo era quasi asfissiante. Camminavo alla svelta, cuffie alle orecchie, musica a tutto volume, canticchiando allegramente: è per questo, che non lo udii avvicinare.
Mi ritrovai schiacciata contro il muro, con una mano che mi tappava la bocca, l’altra che minacciava con un coltellino il mio collo, le sue gambe che premevano e bloccavano le mie.
Per arrivare in centro dovevo attraversare un sottopassaggio. Erano le tre del pomeriggio e non c’era nessuno in giro: il caldo era quasi asfissiante. Camminavo alla svelta, cuffie alle orecchie, musica a tutto volume, canticchiando allegramente: è per questo, che non lo udii avvicinare.
Mi ritrovai schiacciata contro il muro, con una mano che mi tappava la bocca, l’altra che minacciava con un coltellino il mio collo, le sue gambe che premevano e bloccavano le mie.
“Non
urlare”, mi minacciò.
La
mia mente faticava ancora a recepire il reale pericolo, ciò che volesse
quell’individuo, sulla quarantina, rasato, barba appena fatta, profumo intenso,
ancora in giacca e cravatta, come appena uscito dal suo ufficio…
La sua mano s’introdusse tra le mie gambe. La mia forza rispetto alla sua era paragonabile a quella di un criceto tra le zambe di un gatto: ogni movimento m’incatenava di più.
La sua mano s’introdusse tra le mie gambe. La mia forza rispetto alla sua era paragonabile a quella di un criceto tra le zambe di un gatto: ogni movimento m’incatenava di più.
“Non
ti muovere”, m’intimò. “O ti taglio la gola”.
Se
non fosse stato per quei telefilm adolescenziali, cui non perdevo un episodio,
non avrei ancora fantasticato sulla mia prima volta: ma l’avevo immaginata,
tanto ormai d’essermi creata delle aspettative: il romantico rimase astratto in
me.
Ero
già senza i pantaloncini corti di jeans. Ero già senza le culottes nere. Ero a
un tratto senza la mia verginità.
Con
crescente raccapriccio capii che le mie suppliche e lacrime lo eccitassero di
più: così mi zittii del tutto. Completamente impotente e sommersa dal suo
disgusto, dal suo alito che mi bagnava l’orecchio, dal suo petto che si
gonfiava contro il mio, dalla sua mano che stringeva il mio piccolo seno... E
quando pensai di aver raggiunto il massimo dello sconforto, la naturale e
crudele reazione della mia giovane età, mi riempì di vergogna.
Iniziò
a bagnarsi… a provare piacere… per un viscido! Per un vigliacco! Per un
assassino d’innocenza! Come potevo? Io, io ero disgustata, ma il mio corpo… non
reagiva più seguendo ciò che io provavo, mi aveva rubato anche quello… Tradita,
tradita persino dal mio corpo!
Volevo
ora che quel coltellino, mi recidesse di netto la gola…
Era un pomeriggio di mezza estate, come oggi, a quindici anni di distanza.
Dopo undici lunghi anni di cause vinte in tribunale, che sembravano sempre non bastare; dopo undici lunghi anni d’interrogatori e umiliazioni, perché in qualche modo io mi sentivo colpevole, mi facevano sentire colpevole; dopo undici lunghi anni di dettagli, perché erano i dettagli a interessargli, dettagli che mi facevano rivivere l’accaduto, stuprata ogni singola volta dai ricordi; dopo undici lunghi anni, finalmente, la sentenza definitiva: diciotto anni di reclusione.
E sapete qual’era la cosa peggiore?
Al
di là della giustizia. Al di là degli incubi. Al di là di lui... Era essere
stata messa in discussione. Come se io avessi provato e provassi piacere nel
farmi etichettare: la "ragazzina violentata". Dio, quant'è stato
difficile sorreggere gli sguardi dei miei compaesani! Le madri delle mie amiche
iniziarono a metterle in guardia, non dai pericoli che avrebbero incontrato per
strada, o comunque non solo da quelli, ma da me. Sì, le mettevano in guardia da
me. Come se fossi stata io ad andarmela a cercare. Certo, io ero troppo carina.
Ero irresistibile ed un uomo... beh, è pur sempre un uomo.Un uomo che si è
comportato da mostro, sì certo, questo lo riconoscevano e provavano anche
compassione per me, ma restava il fatto che io non ero più una ragazzina
innocente, e ciò era un rischio per le proprie figlie. Un rischio alla loro
innocenza. Come se io potessi contaminarle. Come non fossi più una
quattordicenne. Come se non fossi più buona... io ero macchiata.
E
i ragazzi... i ragazzi a scuola m'indicavano. Perché avevo provato ciò che
ancora loro non conoscevano e, in qualche modo, gli intimidivo. E cosa fanno i
ragazzini di fronte a qualcosa che ignorano e che li rende insicuri? Lo
deridono. Sì, mi deridevano scrivendo sui muri frasi che... frasi che mi
facevano capire perché si temeva di denunciare ad alta voce il soggetto che ha
abusato... di qualunque cosa abbia questo abusato. No, pensandoci, non solo i
ragazzini si comportano in tal modo. Tommy era uno di questi. Lo stesso Tommy
che prima mi vedeva come una bambina, e aveva ragione io ero una bambina,
mentre dopo... dopo chi ero? Ero qualcuno da consolare, anche se non sapeva
come, e siccome non sapeva come fare, allora, ero qualcuno da evitare...
Ma
sono cresciuta con una madre che ha continuato a ripetermi che tutto questo mi
avrebbe reso più forte. Sì, io avrei imparato a camminare a testa alta di
fronte a qualsiasi stupida provocazione e sarei cresciuta comprendendo la
differenza di un vero sorriso e di uno falso: ciò che divide la comprensione
dall'ipocrisia. E sono cresciuta, sì, con questa convinzione... mentre mio
padre, nonostante cercasse di coccolarmi e proteggermi come prima, come non
aveva saputo fare quel giorno, mi guardava come se fossi un'altra persona. Io
non ero più la bambina che conosceva, ero diventata un'altra figlia, e questo
era ciò che invece terrorizzava lui. E non sapeva rapportarsi a questa nuova
figlia... e così, impercettibilmente, giorno dopo giorno, silenzio dopo silenzio,
si allontanò da me.Anche se è stato sempre presente nel percorso della mia
vita: era solo vicino a me, non insieme a me. Tra noi si era spezzato qualcosa.
Era un pomeriggio di mezza estate, anche quando incontrai il prete della mia parrocchia. Brizzolato, dalle ciglia folti e le mani enormi, come quelle di Morandi. Quando ti appoggiava una mano sulla spalla, ti sentivi sprofondare in essa, come in un abbraccio. Ero seguita da anni da psicologi e assistenti sociali. Erano attenti alle mie reazioni, alla mia salute mentale, alla mia depressione. Volevano che io puntassi il dito contro il mio violentatore, senza vendetta, e che ritrovassi la fiducia nell'amore, senza dimenticare l'accaduto. Era un filo talmente sottile, che mi ritrovavo sempre troppo concentrata a non farlo spezzare, che mantenermi in equilibrio su di esso: così, ripetutamente, scivolavo dall’una o dall'altra parte.
Il
prete della mia parrocchia, disse: "Sono trascorsi quindici anni. Fra un
anno ne compirai trenta. Non sei più una ragazzina. Sei una donna. Sei più
saggia. Sei libera, perché lui sta finalmente pagando per ciò che ti ha
fatto".
Annuii mentre mi spostavo lentamente da lui: era un istinto acquisito, la vicinanza mi metteva a disagio. Eravamo seduti l'uno accanto all'altro, in una panca, di fronte all'altare minore. Non entravo in Chiesa dalla domenica precedente di quel giorno fatidico... Non so cosa mi avesse spinto a rompere quella sorta di esilio. Forse per comprendere se mi sentissi realmente libera, perché se lo ero, non era confortante. “Libertà è sentirsi privi di catene”, avevo letto da qualche parte. Bene, io non avvertivo catene, ma percepivo il vuoto intorno. Libertà era il nulla?
"Ora che hai ottenuto giustizia e che è passato molto tempo: te la senti, di perdonarlo?", mi domandò il prete.
Annuii mentre mi spostavo lentamente da lui: era un istinto acquisito, la vicinanza mi metteva a disagio. Eravamo seduti l'uno accanto all'altro, in una panca, di fronte all'altare minore. Non entravo in Chiesa dalla domenica precedente di quel giorno fatidico... Non so cosa mi avesse spinto a rompere quella sorta di esilio. Forse per comprendere se mi sentissi realmente libera, perché se lo ero, non era confortante. “Libertà è sentirsi privi di catene”, avevo letto da qualche parte. Bene, io non avvertivo catene, ma percepivo il vuoto intorno. Libertà era il nulla?
"Ora che hai ottenuto giustizia e che è passato molto tempo: te la senti, di perdonarlo?", mi domandò il prete.
Non
era solamente la rabbia di quell'intrusione che mi aveva fatto provare odio per
lui, ma era stato soprattutto il cambiamento irreversibile che quell'atto aveva
portato alla mia esistenza... Lui aveva interferito nel mio futuro. Lui aveva
mutato ciò che ero e mi aveva trasformato in qualcosa che non riconoscevo: un
essere che provava a sopravvivere e non a vivere. Sollevai lo sguardo
sull'altare, su quel Gesù crocifisso, e sorrisi.
"Io perdono il mio corpo che non ha seguito la mia anima… perdono me stessa, lui, beh, lui che si faccia perdonare da Dio, quando lo incontrerà. Perché se io non posso giudicare al Suo posto, non posso neppure perdonare in Sue veci…".
"Io perdono il mio corpo che non ha seguito la mia anima… perdono me stessa, lui, beh, lui che si faccia perdonare da Dio, quando lo incontrerà. Perché se io non posso giudicare al Suo posto, non posso neppure perdonare in Sue veci…".
È un pomeriggio di mezza estate come quel ieri, a quindici anni di distanza. Mi manca l’ultimo esame per la specialista in lingue. Ho appena abbandonato la fermata del bus per recarmi in facoltà. Ho il mio esame da superare, che vorrei superare… ma eccolo lì, appoggiato a un palo, una mano dentro la tasca, la sigaretta in bocca, barba incolta, molto più robusto di quanto ricordassi: quattro anni dopo di carcere, solamente quattro anni dopo, e sembravano avergli giovato.
Ed
io sono più sensuale adesso, io sono donna adesso, dovrebbe desiderarmi di più
adesso, penso, temo, affilo le unghie, ma non è così: a lui piacciono bambine.
A lui piacciono indifese. A lui piace sottomettere, sentirsi il completo
padrone della situazione. A lui piace la paura dell’ingenuità.
Lo sapevo bene. Lo avevo avvertito diverse volte durante le cause in tribunale. Uno di fronte all'altro. Guardarlo negli occhi, accusarlo e poi sentirmi ribattere che fossi solamente una bambina, che ingrandiva l'accaduto, che avevo una visione distorta di quel giorno, perché per l'appunto ero una bambina... il suo avvocato disse anche che ero stata io a provocarlo. Sì, ero stata io ad iniziare, aveva persino osato sostenere. La sua colpa era stata quella di non essere stato in grado di non cedere alle mie avance. Ed io lo avevo assecondato - affermarono i suoi avvocati - lo avevo assecondato perché non avevo urlato. Menomale che i segni sul mio collo erano la prova delle sue minacce... altrimenti, sì, avrebbero messo in discussione persino la presunta paura alla mia vita. Avrebbero messo in discussione la mia reazione: anormale, per loro, per la difesa.
Lo sapevo bene. Lo avevo avvertito diverse volte durante le cause in tribunale. Uno di fronte all'altro. Guardarlo negli occhi, accusarlo e poi sentirmi ribattere che fossi solamente una bambina, che ingrandiva l'accaduto, che avevo una visione distorta di quel giorno, perché per l'appunto ero una bambina... il suo avvocato disse anche che ero stata io a provocarlo. Sì, ero stata io ad iniziare, aveva persino osato sostenere. La sua colpa era stata quella di non essere stato in grado di non cedere alle mie avance. Ed io lo avevo assecondato - affermarono i suoi avvocati - lo avevo assecondato perché non avevo urlato. Menomale che i segni sul mio collo erano la prova delle sue minacce... altrimenti, sì, avrebbero messo in discussione persino la presunta paura alla mia vita. Avrebbero messo in discussione la mia reazione: anormale, per loro, per la difesa.
Mi
stava aspettando. Ma questa volta - penso - siamo in una strada trafficata.
Questa volta - m'illudo - sono io in vantaggio. Butta la cicca e mi viene
incontro. Rimango paralizzata per una frazione di secondo: la mia mente si è
come svuotata. Cosa vorrà dirmi? Non ho voglia di trovarmi faccia a faccia con
lui. Perché è venuto a cercami? Come fa ad essere qui, davanti a me? Come mi
comporto? Sta solo camminando verso di me e...
E
infilo la mano in tasca, afferro il cellulare, compongo il 113 mentre, mentre
mi volto, quasi indifferente, e mi affretto ad allontanare. Il mio sguardo
scatta in fretta una panoramica: un bar, a venti metri da me…
Corro.
M’insegue.
Lui è più veloce.
M’insegue.
Lui è più veloce.
Urlo.
Le auto ci sfrecciano accanto.
Le auto ci sfrecciano accanto.
Nessuno
si affaccia delle case adiacenti.
I
passanti sembrano spariti per magia.
Mi
agguanta. Il telefonino mi cade dalle mani, proprio mentre rispondevano…
Mi stringe la gola con un braccio e, non perde tempo, mi trafigge le reni con un coltello. Mi sussurra all’orecchio, il suo alito che lo bagna ancora, con orribile freddezza: “Buona condotta: sono stato un bravo carcerato. E tu, una cattiva ragazza: non si denuncia, rovinandogli la vita, chi non sei certa di non rivedere mai più”.
Mi stringe la gola con un braccio e, non perde tempo, mi trafigge le reni con un coltello. Mi sussurra all’orecchio, il suo alito che lo bagna ancora, con orribile freddezza: “Buona condotta: sono stato un bravo carcerato. E tu, una cattiva ragazza: non si denuncia, rovinandogli la vita, chi non sei certa di non rivedere mai più”.
M’infligge
sette coltellate, in pochissimi secondi, mentre qualcuno finalmente si accorge
di noi, ma è tardi.
Lo
rincorre.
Lo
rincorrono in molti.
Sale
in un’auto fermatasi proprio lì: un complice?
Lo
perdono.
C’è
chi chiama i carabinieri.
Chi
i soccorsi.
E
infine ci sono io… tradita, stavolta, da una “buona condotta”.
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