Racconti e altro

1 NEVE CHE SI POSERÀ
2 APPLAUSI
3 TRADITA
4 LA FELICITÀ E' UN ISTANTE... PRIMA DELLA FINE
5 PER LA VIA
6 PER UN BACIO
7 SOLO, PICCOLI, ERRORI...
8 COMPLEANNO
9 TOCCO
10 LA PENNA


1 NEVE CHE SI POSERÀ
Cadeva la neve.
Bianca e soffice si scioglieva sotto i miei piedi. Si espandeva in una pozzanghera di acqua fredda sotto i miei piedi.
Sì, sotto i miei piedi c’era acqua fredda.
Sotto i miei piedi c’era anche il cemento della strada.
Sotto i miei piedi c’era anche qualcosa che gli umani non sanno vedere con i loro semplici occhi.

Cadeva la neve ed io non riuscivo ad afferrarla.
Silenziosa precipitava dal cielo. Precipitava per finire sotto i miei piedi.
Io la vedevo sotto i miei piedi. Era lì, che diventava acqua fredda… dopo esser precipitata dal cielo. Chissà se lei sapeva cosa ci fosse in cielo in realtà. Chissà se sapeva perché la gente lo indicava come il contenitore del paradiso.

Cadeva la neve ed io avrei voluto piangere per non saperla più toccare.
Ma non producevano lacrime i miei occhi. Non c’erano lacrime che precipitassero insieme alla neve sotto i miei piedi. Che si confondessero con l’acqua fredda formatasi sotto i miei piedi.
I miei piedi… eppure lì vedevo, erano ancora lì.
Io ero ancora qui.

Cadeva la neve e si posava su ogni cosa.
Si posava sulle grondaie delle case. Si posava sugli ombrelli aperti della gente che passeggiava per la via. Si posava sulla carrozzeria delle automobili. Si posava sui lampioni accesi. Si posava sull’asfalto della strada, persino dov’io stavo in piedi.
Stavo in piedi sull’asfalto della strada al centro di essa.

“Aiuto! Chiamate un’ambulanza! Presto! Presto!”, era un uomo ad urlare.
Era appena stato l’artefice di un incidente d’auto con un motorino. Il motorino era finito sotto la sua automobile sulla quale ora si posava la neve. Si posava anche su di lui, mentre correva da una parte all’altra in cerca di soccorso. Molta gente fiancheggiava il punto dell’impatto. Molta gente cercava di aiutarlo. Su tutti loro la neve si posava.
Anch’io mi avvicinai.

Cadeva la neve anche sopra una pozza oleosa e su un’altra di colore rosso: entrambe si espandevano da sotto il motorino. Mi accorsi che la pozza era cambiata anche sotto i miei piedi.
Sotto i miei piedi non c’era più acqua fredda… ma olio e sangue.
Il suono dell’ambulanza infranse il silenzio magico creato dal precipitare della neve. Ma ormai era tardi. Lo si vedeva negli occhi della gente. Lo si vedeva negli occhi disperati e colpevoli dell’uomo. Io lo sapevo bene quanto i loro occhi avessero ragione.
Ma quell’uomo non avrebbe dovuto sentirsi colpevole. Poverino, che cosa avrebbe potuto fare? Non lo aveva visto arrivare. Il motorino gli era finito sotto le ruote così velocemente che anche prevedendolo qualche attimo prima, non avrebbe fatto in tempo a frenare su quel freddo e scivoloso asfalto. Sperai che la neve ricoprisse i suoi sensi di colpa.

Arrivarono anche i carabinieri per i loro consueti rilevamenti. Anche sui loro berretti la neve trovava alloggio e sembrava starci piuttosto comoda. Pochi istanti e furono lì pure i pompieri. Non c’era fuoco da spegnere, ma soltanto neve per loro, persino sulle loro pompe. Non c’era nessuno da salvare, ma soltanto un motorino per loro, da tirare da sotto l’automobile del signore che ora piangeva per quell’incidente infausto. Lo invidiai. Lui sapeva piangere ancora.

Cadeva la neve su ogni cosa, tranne che su di me.
Mi passava attraverso. Non la sentivo sotto i miei piedi. Non sentivo l’acqua fredda sotto i miei piedi né l’asfalto scivoloso. E non sentivo l’olio né il sangue sotto i miei piedi.
Non sentivo freddo, né caldo.
Non sentivo nulla, eppure avrei voluto piangere. Giusto per fare qualcosa. Ma non potevo più ormai.
Vedevo ogni cosa che mi circondasse, ma non potevo afferrarla. Era una sensazione davvero spiacevole, assomigliava al senso d’impotenza.
Vedevo la neve cadere ancora come vedevo il mio corpo che veniva riposto ora su di una barella. Il mio volto che veniva nascosto alla vista dei presenti. Chissà se la gente ci credeva davvero che il nostro corpo fosse solo un contenitore. Perché io ero ancora lì. Non potevo fare nulla senza il mio corpo, ma ero ancora lì.
Perché ero ancora lì?

L’ambulanza si portò via il mio corpo e per un attimo temetti che fossi costretta a seguirlo. Che una forza invisibile mi avrebbe sollevata da terra e trascinata con esso dovunque andasse. Invece rimasi, lì, ferma, con la neve che mi attraversava e si depositava sotto i miei piedi che non l’avvertivano. E adesso?

“E adesso, vieni con me”, mi sentii dire.
Mi voltai e alla mia destra c’era una figura un po’ trasparente, non ben definita, alta poco più di me, e sembrava porgermi una mano fatta di vapore.
“Seguimi”, disse ma non vidi la sua bocca muoversi.
Si voltò e prese a camminare lontano da me. Presi a seguirla soltanto perché non avevo nient’altro da fare e muovermi era l’unica cosa che mi riuscisse. Anche se osservando i miei piedi non riuscivo a comprendere come si muovessero: non pestavano l’asfalto né si libravano nell’aria. Era una specie di via di mezzo.

“Dove andiamo?”, domandai.
“A sceglierti un corpo”. Non la capii e lei mi rispose ancor prima che formulassi la domanda a voce. “Guardati intorno e scegli una donna. Puoi prenderti tutto il tempo che vuoi, in realtà tu sei senza tempo adesso. Ma se lo consideriamo dal punto di vista umano, puoi startene in questa dimensione e andare in giro per il mondo anche per quelli che loro considerano secoli. La donna che sceglierai, sarà tua madre. Ma non ricorderai nulla, come la volta precedente”.
“Mi basta sceglierla?”.
“Sì, poi l’universo troverà il modo”.
Mi sembrava tutto molto triste. Quando ero in vita e giocavo a pallavolo, capitavano le volte in cui nessuno volesse scegliermi.
“Se una donna non viene scelta in questa vita per diventare madre, verrà scelta in un’altra, come succederà a te, probabilmente”, disse.
Poi si fermò al centro di una via affollata e cominciò a svanire.
“Sì, me ne vado”, mi precedette ancora. “Adesso sai cosa fare”.
“E dove vai? Non puoi restare con me?”.
“No, ho finalmente trovato la mia donna”.
Si trasformò in un puntino luminoso bianco simile ad un batuffolo di neve. Volteggiò in aria come la neve fino a posarsi delicatamente sulla mano di una ragazza che, ignara di tutto, osservava sognatrice un lungo vestito rosso dietro una vetrina. Si sciolse nella sua mano e le penetrò dentro.

Cadeva la neve.
Si scioglieva sotto i miei piedi. Chissà se i batuffoli di neve erano tanti come me in cerca di una madre.
“Vuoi sentire ancora la neve sciogliersi su di te?”, mi domandò una voce alle mie spalle. Era di un’altra figura luminescente. “Allora cerca. Io la mia l’ho appena trovata”.
E si tramutò in una goccia d’acqua che precipitò da un balcone dove una signora, parecchio avanti con l’età, vi si era riparata dalla neve.

Cadeva la neve su ogni cosa, tranne che su di me.
Ma presto sarei tornata ad avvertirla di nuovo… sotto i miei piedi. 

2 APPLAUSI
Sei un’esistenza primaria.
Sei una porzione distinta dall’essenza di Dio e contieni una parte di Lui.
Perché allora ignori la tua nobile origine?
Porti un Dio dentro di te,
povero infelice, e non ne sai nulla.
(Epitteto)”.
Sollevai gli occhi e osservai il mio pubblico. Le loro menti sembravano concentrate su di me, come i loro applausi sembravano un’approvazione per ciò che avevo appena letto: ma pensavano ad altro e non credevano in ciò che acclamavano… Però avrebbero voluto. Oh, sì! Lo avrebbero voluto.
La signora Costanza mi si avvicinò alle spalle e m’invitò a tornare al mio posto. Io mi allontanai dal microfono accompagnato ancora dai loro applausi, mentre lei ripeteva per i presenti il mio nome (se occorreva ricordargli il mio nome dopo cinque minuti esatti, come sperare che non dimenticassero le mie seguenti 38 parole, nella stessa sequenza da me recitate?) e annunciava il prossimo.
Presi posto in una sediolina di compensato sbiadito e di ferro appena un poco arrugginito, accanto a chi era già stato chiamato prima di me.
“Quest’oggi”, ripeteva intanto per l’ennesima volta la signora Costanza. “Per chi fosse appena giunto, vi rammento che siamo tutti qui riuniti per celebrare NOI. Perché NOI siamo importanti e dobbiamo comunicarcelo. E dobbiamo comunicarlo ai nostri bambini”.
Rivolsi lo sguardo verso il pubblico che l’udiva e ancora una volta faceva scrosciare vivacemente le proprie mani fra loro. Ma, come prima, i loro visi dicevano altro: “quant’è ingenuo tutto questo! Però è positivo…”.
Mia madre lo aveva detto stamani: “E’ un evento positivo”:
“Positivo in che senso?”, le avevo domandato.
“Positivo è qualcosa che vale la pena di essere vissuto”.
“Ma come può essere positiva una cosa che tu hai definito “noiosa”?”.
Lo aveva esclamato poco prima. Lo avevo udito benissimo.
“No, non sarà noioso. Dicevo per… lascia perdere quel che hai sentito. Ci sarai tu, per questo non sarà noioso”.
“Ma io non sono l’evento positivo di tutti… gli altri come faranno a non annoiarsi? Come farà a essere positivo per loro?”.
“Sarà ciò che si dirà a essere importante”.
“Se ti annoieresti senza di me… come potrebbe essere importante?”.
“A volte è vero, si celebra qualcosa in cui non si crede, ma ne vale sempre la pena”.
“Perché?”.
“Perché è sempre meglio che celebrare il male”, aveva infine ribattuto.

“E ora, accogliamo con un applauso Patrizio Esmeraldi”, esclamò la signora Costanza e nuovamente le mani furono battute fragorosamente tra loro.
Mi sorpresi a fare altrettanto, in un gesto così automatico, che mi ricordava Frodo, ne “Il signore degli anelli”, mentre cerca di raggiungere il Monte Fato e combatte contro l’impulso d’infilarsi l’anello al dito… che guida la sua mano verso di esso.
Patrizio raggiunse il pulpito, era più alto di me e anche della signora Costanza, e per questo perse qualche secondo a posizionare il microfono all’altezza a lui conveniente. Poi lesse la frase a lui assegnata. Non eravamo stati noi a sceglierle, ma ero stato fortunato: io adoravo la mia.
Nei limiti delle nostre forze, dovremo aspirare all’immortalità,
e fare tutto il possibile per vivere secondo ciò che di più elevato alberga in noi;
sebbene le nostre forze siano piccole per quantità, potenza e valore, esse sono di gran lunga superiori a tutto il resto (Aristotele)”.
Balbettò e inciampò goffamente a ogni parola su tre. Poi sgattaiolò via, quasi scappasse da quelle mani che battevano ora per lui.
Aveva ragione a scappare: battevano per altro… perciò faceva bene ad allontanarsi al più presto da lì. Avrei dovuto farlo anch’io prima, ero stato fortunato a riuscire a riconquistare la mia sediolina, non perfetta, ma estremamente reale.
Era ora il turno di Elisa Motticini, annunciò la signora Costanza. Elisa arrivò eretta, abbassò verso di lei il microfono, guardò il pubblico con l’aria di chi sa quel che fa e lo fa con orgoglio, e infine lesse con voce squillante e fiera la sua parte, ma capii subito che, nonostante volesse farcelo pensare, neppure lei credeva in ciò che recitava. Lei non temeva quelle dita e quei palmi tesi a scontrarsi fra loro con un continuo e ripetitivo “clap, clap, clap…”. Lei amava quel loro suono e ancor di più, amava che suonassero per lei. Anche se non erano sue quelle parole lette, anche se non aveva neppure la minima idea di quale fosse il loro significato.
Osservai il pubblico: loro lo sapevano, però, il significato delle nostre parole! Lo sapevano ma mia madre aveva applaudito me e non esse, come alcuni di loro applaudivano Elisa e non ciò che aveva detto… e molti di loro non applaudivano neppure noi. Chi cavolo applaudivano?
La signora Costanza diceva che avevamo terminato le nostre letture e l’invitava in un altro caloroso applauso per noi tutti i partecipanti di quella “splendida”, sostenne, serata di “condivisione”.
“NO”, urlai alzandomi dalla sedia senza pensarci.
Tutti gli occhi si proiettarono immediatamente su di me: molti erano stupiti altri emettevano stupidi risolini.
La signora Costanza mi lanciò un’occhiata di rimprovero, mentre io cercavo il viso di mia madre, tra la folla, ma non riuscivo a scorgerla. M’intimò a ritornare al mio posto, ma non obbedii. Corsi al centro del palco. Mi voltai verso i presenti, la cui attenzione adesso era realmente rivolta verso di me.
Volevo parlargli, ma non sapevo come esprimermi. Persi l’attimo, per pensarci troppo, e la signora Costanza mi afferrò per le spalle cercando di trascinarmi via da lì, ordinandomi indignata e perentoria di tornarmene subito al mio posto.
Il mio posto… mio posto… mio…
“NO”, fu l’unica cosa che seppi dire. E lo ripetei ancora e poi di nuovo e un’altra volta…
Io, al centro del palco, sotto gli occhi di tutti, che scioccamente ridevano di me, continuavo imperterrito a urlare il mio “NO”.
Nessuno riusciva ad andare oltre quel “no”, così scoppiai a piangere.
Per me e per loro.
Per il “noi” che non eravamo, anche se in teoria lo stavamo festeggiando.

Ero dietro le quinte, in braccio a mamma. Mi aveva sgridato per benino, per non aver obbedito alla signora Costanza, la mia insegnante. Ora però, cercava di consolare le mie lacrime.
“Non piangere più”, mi sussurrava tra i capelli, stringendomi a sé più forte. “Non piangere più, perché non c’è motivo di sentirti imbarazzato. Sai cosa significa sentirsi imbarazzati?”.
Lo sapevo. Sapevo più cose di quanto non s’immaginassero lei e i miei insegnanti. La tv chiacchierava di tutto e non ci domandava mai se fosse troppo presto per parlarci di quello o di quell'altro. Dava per scontato che potessimo comprendere, al limite, pensava, potevamo sempre domandare ai nostri genitori o ad altri (c’è sempre qualcuno al quale domandare qualcosa che non sai): per questo mi piaceva.
“E’ quando fai qualcosa di stupido davanti ai tuoi amici e diventi tutto rosso”, risposi.
“Esatto. E tu non hai fatto nulla di stupido. Perciò non piangere più”.
“Ma io non piango per questo”.
“E per cosa piangi?”.
“Tu hai detto che era sempre meglio che celebrare il male”.
Ora sapevo a cosa applaudivano tutti quanti: al vuoto, e non era positivo…
“Sì, l’ho detto”.
“Ma non è così… questo è il male”. 


3 TRADITA 
Era un pomeriggio di mezza estate. Ero di buon umore. Indossavo pantaloncini corti di jeans, una maglia larga color lampone e degli occhiali da sole, quelli non mancavano mai. Non per proteggermi ma - e non so, per quale ridicola convinzione lo credessi - per apparire sfacciata.

Avevo quattordici anni compiuti nel mese di aprile. Per esattezza, il 25 aprile, la Liberazione. Un giorno davvero ironico, per me, oggi.
Dovevo incontrare delle amiche per un gelato nel bar della piazza, a due isolati dalla mia abitazione. Rifiutai di farmi accompagnare in auto da papà: sarebbe stato imbarazzante. Soprattutto perché avrebbe dovuto raggiungerci pure Tommy con i suoi amici. Tommy aveva cinque anni in più di me ed io volevo apparirgli bella, sicura e alla sua altezza.
Per arrivare in centro dovevo attraversare un sottopassaggio. Erano le tre del pomeriggio e non c’era nessuno in giro: il caldo era quasi asfissiante. Camminavo alla svelta, cuffie alle orecchie, musica a tutto volume, canticchiando allegramente: è per questo, che non lo udii avvicinare.
Mi ritrovai schiacciata contro il muro, con una mano che mi tappava la bocca, l’altra che minacciava con un coltellino il mio collo, le sue gambe che premevano e bloccavano le mie.
“Non urlare”, mi minacciò.
La mia mente faticava ancora a recepire il reale pericolo, ciò che volesse quell’individuo, sulla quarantina, rasato, barba appena fatta, profumo intenso, ancora in giacca e cravatta, come appena uscito dal suo ufficio…
La sua mano s’introdusse tra le mie gambe. La mia forza rispetto alla sua era paragonabile a quella di un criceto tra le zambe di un gatto: ogni movimento m’incatenava di più.
“Non ti muovere”, m’intimò. “O ti taglio la gola”.
Se non fosse stato per quei telefilm adolescenziali, cui non perdevo un episodio, non avrei ancora fantasticato sulla mia prima volta: ma l’avevo immaginata, tanto ormai d’essermi creata delle aspettative: il romantico rimase astratto in me.
Ero già senza i pantaloncini corti di jeans. Ero già senza le culottes nere. Ero a un tratto senza la mia verginità.
Con crescente raccapriccio capii che le mie suppliche e lacrime lo eccitassero di più: così mi zittii del tutto. Completamente impotente e sommersa dal suo disgusto, dal suo alito che mi bagnava l’orecchio, dal suo petto che si gonfiava contro il mio, dalla sua mano che stringeva il mio piccolo seno... E quando pensai di aver raggiunto il massimo dello sconforto, la naturale e crudele reazione della mia giovane età, mi riempì di vergogna.
Iniziò a bagnarsi… a provare piacere… per un viscido! Per un vigliacco! Per un assassino d’innocenza! Come potevo? Io, io ero disgustata, ma il mio corpo… non reagiva più seguendo ciò che io provavo, mi aveva rubato anche quello… Tradita, tradita persino dal mio corpo!
Volevo ora che quel coltellino, mi recidesse di netto la gola…

Era un pomeriggio di mezza estate, come oggi, a quindici anni di distanza.
Dopo undici lunghi anni di cause vinte in tribunale, che sembravano sempre non bastare; dopo undici lunghi anni d’interrogatori e umiliazioni, perché in qualche modo io mi sentivo colpevole, mi facevano sentire colpevole; dopo undici lunghi anni di dettagli, perché erano i dettagli a interessargli, dettagli che mi facevano rivivere l’accaduto, stuprata ogni singola volta dai ricordi; dopo undici lunghi anni, finalmente, la sentenza definitiva: diciotto anni di reclusione.
E sapete qual’era la cosa peggiore?
Al di là della giustizia. Al di là degli incubi. Al di là di lui... Era essere stata messa in discussione. Come se io avessi provato e provassi piacere nel farmi etichettare: la "ragazzina violentata". Dio, quant'è stato difficile sorreggere gli sguardi dei miei compaesani! Le madri delle mie amiche iniziarono a metterle in guardia, non dai pericoli che avrebbero incontrato per strada, o comunque non solo da quelli, ma da me. Sì, le mettevano in guardia da me. Come se fossi stata io ad andarmela a cercare. Certo, io ero troppo carina. Ero irresistibile ed un uomo... beh, è pur sempre un uomo.Un uomo che si è comportato da mostro, sì certo, questo lo riconoscevano e provavano anche compassione per me, ma restava il fatto che io non ero più una ragazzina innocente, e ciò era un rischio per le proprie figlie. Un rischio alla loro innocenza. Come se io potessi contaminarle. Come non fossi più una quattordicenne. Come se non fossi più buona... io ero macchiata.
E i ragazzi... i ragazzi a scuola m'indicavano. Perché avevo provato ciò che ancora loro non conoscevano e, in qualche modo, gli intimidivo. E cosa fanno i ragazzini di fronte a qualcosa che ignorano e che li rende insicuri? Lo deridono. Sì, mi deridevano scrivendo sui muri frasi che... frasi che mi facevano capire perché si temeva di denunciare ad alta voce il soggetto che ha abusato... di qualunque cosa abbia questo abusato. No, pensandoci, non solo i ragazzini si comportano in tal modo. Tommy era uno di questi. Lo stesso Tommy che prima mi vedeva come una bambina, e aveva ragione io ero una bambina, mentre dopo... dopo chi ero? Ero qualcuno da consolare, anche se non sapeva come, e siccome non sapeva come fare, allora, ero qualcuno da evitare...
Ma sono cresciuta con una madre che ha continuato a ripetermi che tutto questo mi avrebbe reso più forte. Sì, io avrei imparato a camminare a testa alta di fronte a qualsiasi stupida provocazione e sarei cresciuta comprendendo la differenza di un vero sorriso e di uno falso: ciò che divide la comprensione dall'ipocrisia. E sono cresciuta, sì, con questa convinzione... mentre mio padre, nonostante cercasse di coccolarmi e proteggermi come prima, come non aveva saputo fare quel giorno, mi guardava come se fossi un'altra persona. Io non ero più la bambina che conosceva, ero diventata un'altra figlia, e questo era ciò che invece terrorizzava lui. E non sapeva rapportarsi a questa nuova figlia... e così, impercettibilmente, giorno dopo giorno, silenzio dopo silenzio, si allontanò da me.Anche se è stato sempre presente nel percorso della mia vita: era solo vicino a me, non insieme a me. Tra noi si era spezzato qualcosa.

Era un pomeriggio di mezza estate, anche quando incontrai il prete della mia parrocchia. Brizzolato, dalle ciglia folti e le mani enormi, come quelle di Morandi. Quando ti appoggiava una mano sulla spalla, ti sentivi sprofondare in essa, come in un abbraccio. Ero seguita da anni da psicologi e assistenti sociali. Erano attenti alle mie reazioni, alla mia salute mentale, alla mia depressione. Volevano che io puntassi il dito contro il mio violentatore, senza vendetta, e che ritrovassi la fiducia nell'amore, senza dimenticare l'accaduto. Era un filo talmente sottile, che mi ritrovavo sempre troppo concentrata a non farlo spezzare, che mantenermi in equilibrio su di esso: così, ripetutamente, scivolavo dall’una o dall'altra parte.
Il prete della mia parrocchia, disse: "Sono trascorsi quindici anni. Fra un anno ne compirai trenta. Non sei più una ragazzina. Sei una donna. Sei più saggia. Sei libera, perché lui sta finalmente pagando per ciò che ti ha fatto".
Annuii mentre mi spostavo lentamente da lui: era un istinto acquisito, la vicinanza mi metteva a disagio. Eravamo seduti l'uno accanto all'altro, in una panca, di fronte all'altare minore. Non entravo in Chiesa dalla domenica precedente di quel giorno fatidico... Non so cosa mi avesse spinto a rompere quella sorta di esilio. Forse per comprendere se mi sentissi realmente libera, perché se lo ero, non era confortante. “Libertà è sentirsi privi di catene”, avevo letto da qualche parte. Bene, io non avvertivo catene, ma percepivo il vuoto intorno. Libertà era il nulla?
"Ora che hai ottenuto giustizia e che è passato molto tempo: te la senti, di perdonarlo?", mi domandò il prete.
Non era solamente la rabbia di quell'intrusione che mi aveva fatto provare odio per lui, ma era stato soprattutto il cambiamento irreversibile che quell'atto aveva portato alla mia esistenza... Lui aveva interferito nel mio futuro. Lui aveva mutato ciò che ero e mi aveva trasformato in qualcosa che non riconoscevo: un essere che provava a sopravvivere e non a vivere. Sollevai lo sguardo sull'altare, su quel Gesù crocifisso, e sorrisi.
"Io perdono il mio corpo che non ha seguito la mia anima… perdono me stessa, lui, beh, lui che si faccia perdonare da Dio, quando lo incontrerà. Perché se io non posso giudicare al Suo posto, non posso neppure perdonare in Sue veci…".

È un pomeriggio di mezza estate come quel ieri, a quindici anni di distanza. Mi manca l’ultimo esame per la specialista in lingue. Ho appena abbandonato la fermata del bus per recarmi in facoltà. Ho il mio esame da superare, che vorrei superare… ma eccolo lì, appoggiato a un palo, una mano dentro la tasca, la sigaretta in bocca, barba incolta, molto più robusto di quanto ricordassi: quattro anni dopo di carcere, solamente quattro anni dopo, e sembravano avergli giovato.
Ed io sono più sensuale adesso, io sono donna adesso, dovrebbe desiderarmi di più adesso, penso, temo, affilo le unghie, ma non è così: a lui piacciono bambine. A lui piacciono indifese. A lui piace sottomettere, sentirsi il completo padrone della situazione. A lui piace la paura dell’ingenuità.
Lo sapevo bene. Lo avevo avvertito diverse volte durante le cause in tribunale. Uno di fronte all'altro. Guardarlo negli occhi, accusarlo e poi sentirmi ribattere che fossi solamente una bambina, che ingrandiva l'accaduto, che avevo una visione distorta di quel giorno, perché per l'appunto ero una bambina... il suo avvocato disse anche che ero stata io a provocarlo. Sì, ero stata io ad iniziare, aveva persino osato sostenere. La sua colpa era stata quella di non essere stato in grado di non cedere alle mie avance. Ed io lo avevo assecondato - affermarono i suoi avvocati - lo avevo assecondato perché non avevo urlato. Menomale che i segni sul mio collo erano la prova delle sue minacce... altrimenti, sì, avrebbero messo in discussione persino la presunta paura alla mia vita. Avrebbero messo in discussione la mia reazione: anormale, per loro, per la difesa.

Mi stava aspettando. Ma questa volta - penso - siamo in una strada trafficata. Questa volta - m'illudo - sono io in vantaggio. Butta la cicca e mi viene incontro. Rimango paralizzata per una frazione di secondo: la mia mente si è come svuotata. Cosa vorrà dirmi? Non ho voglia di trovarmi faccia a faccia con lui. Perché è venuto a cercami? Come fa ad essere qui, davanti a me? Come mi comporto? Sta solo camminando verso di me e...
E infilo la mano in tasca, afferro il cellulare, compongo il 113 mentre, mentre mi volto, quasi indifferente, e mi affretto ad allontanare. Il mio sguardo scatta in fretta una panoramica: un bar, a venti metri da me…
Corro.
M’insegue.
Lui è più veloce.
Urlo.
Le auto ci sfrecciano accanto.
Nessuno si affaccia delle case adiacenti.
I passanti sembrano spariti per magia.
Mi agguanta. Il telefonino mi cade dalle mani, proprio mentre rispondevano…
Mi stringe la gola con un braccio e, non perde tempo, mi trafigge le reni con un coltello. Mi sussurra all’orecchio, il suo alito che lo bagna ancora, con orribile freddezza: “Buona condotta: sono stato un bravo carcerato. E tu, una cattiva ragazza: non si denuncia, rovinandogli la vita, chi non sei certa di non rivedere mai più”.
M’infligge sette coltellate, in pochissimi secondi, mentre qualcuno finalmente si accorge di noi, ma è tardi.
Lo rincorre.
Lo rincorrono in molti.
Sale in un’auto fermatasi proprio lì: un complice?
Lo perdono.
C’è chi chiama i carabinieri.
Chi i soccorsi.
E infine ci sono io… tradita, stavolta, da una “buona condotta”.


4 LA FELICITÀ È UN ISTANTE… PRIMA DELLA FINE 
C’è un unico errore innato,
ed è quello di credere
che noi esistiamo per essere
felici.
- Schopenhauer -

Leo.
Sì, questo è il mio nome.

Leo Manto.

Sono nato nel 1802.

Sono padre di tre forti e vivaci maschietti – il sogno di ogni uomo con eredità da lasciare, ed io ho una consistente eredità da lasciare! – e marito della donna più bella del mio paesino, che mi ama come se fossi l’unico umano sopravvissuto sulla Terra dopo la quasi estinzione della nostra specie.

Sono Leo Manto e sono il desiderio di molta gente; ma oggi, la finirò…

Firmato,

Leo Manto
Sostenere che leggere le sue ultime parole mi sconvolse, è a dir poco riduttivo. In genere, un uomo che si uccide lascia dietro di sé lettere struggenti e deprimenti, che non fanno che compiangere se stessi e dare la colpa a chi non li ha compresi, ovvero tutto il cosmo. Invece lui, lascia chiaramente intendere che fosse vissuto felice; che nel preciso istante in cui scelse di abbandonare la vita, fosse assolutamente soddisfatto di sé e di ciò che avesse; no, molto di più, afferma che non avrebbe potuto desiderare di meglio, eppure… Bene, io ero qui per capire questo “eppure”.
Ero impegnata da sette mesi ormai nella ricerca di una spiegazione plausibile. Una spiegazione in grado di soddisfare la mia impellente e bramosa curiosità; ma nessuna delle mie domande aveva ancora trovato una risposta quantomeno accettabile, tra le tante: cosa poté indurre Leo Manto a suicidarsi? La troppa perfezione della sua vita? Quanto stonava da uno a diecimila tale interpretazione? Diecimila e uno.
La documentazione che avevo trovato a riguardo era sfaccettata, approfondita e ricca di dettagli pressoché inutili al mio fine ultimo. Potevo affermare con certezza di sapere ormai praticamente ogni particolare della sua vita, che in una parola potevo a cuor leggero definire “perfetta”. Era davvero bella come l’aveva descritta, non aveva esagerato, anzi, era splendida. Leo Manto era stato il maggiore azionario di una fabbrica di scarpe e, nonostante il suo gesto potrebbe facilmente farlo supporre, non aveva mai contratto debiti, o in ogni modo, non ne aveva in quel martedì del 29 aprile 1834, giorno in cui si tolse la vita. No, quando decise di spararsi un colpo di pistola alla tempia, era strapieno di soldi. Denaro pulito, s’intende, non era intricato in nessun affare della malavita. Era pulito. Era leale. Era sereno. Era perfetto. Perché allora rinunciare alla propria vita? Che cosa mi sfuggiva?
Ho iniziato allora a esaminare i figli: nella sua ultima lettera faceva riferimento all’eredità che aveva intenzione di lasciargli. Forse, erano i figli a trovarsi nei guai? Forse era stato un gesto d’incredibile altruismo? O forse era una messinscena? Forse erano stati i figli a ucciderlo per avere l’eredità? Ok, ero un’amante dei gialli, in particolare del Tenente Colombo e del Commissario Montalbano; e chi non lo era? Mi ero agevolmente e candidamente lasciata sedurre dalle congetture: la fantasia è da sempre il più potente eccitante che Madre Natura ha per noi inventato.
Tuttavia, che ci fosse qualcosa di strano era evidente e non era frutto della mia fervida immaginazione; ma sapete cos’ho scoperto? I figli di Leo Manto erano innamoratissimi del padre e quando seppero cosa avesse fatto, si sentirono talmente in colpa per non aver intuito niente prima, da non volere una lira di quell’eredità. Vendettero l’azienda del padre e l’intero ricavato fu dato in beneficienza a un orfanotrofio.
Decisi, a questo punto, di puntare sulla moglie: la signora Maria Manto Fonte. Era figlia di Samuele Fonte, un pastore – non di pecore, no, ma di una chiesa protestante! – e di Annamaria Sole, morta purtroppo pochi mesi dopo la nascita della moglie del nostro esemplare uomo dell’inchiesta, a causa di un incidente alquanto strano. Questo poteva trattarsi del primo vero indizio che trovavo o, perlomeno, qualcosa d’interessante da investigare.
L’indizio mi condusse in una stia. Sì, in una stia! Lo trovate strano? Cosa non lo è di questa vicenda? Qui, la signora Annamaria Sole, madre da pochi mesi di una sana e bella bambina e moglie da meno di un anno, di un uomo definito da tutti come un grande lavoratore, d’onore e buono come il latte appena munto, s’impicca al tetto tra galli e galline. La signora Annamaria, però, prima di compiere l’insano (in questa precisa circostante, non si può proprio non considerarlo “insano”) gesto, con un coltellino incide su di una trave di legno il seguente messaggio: HO REALIZZATO FINALMENTE TUTTI I MIEI SOGNI E SONO MEGLIO DI QUANTO IMMAGINASSI; MA, OGGI, VI SALUTERO’… A. F. S.
E questo, cosa mi protendeva a pensare? Che questa famiglia soffrisse di un disturbo insolito: quando raggiungevano la propria gratificazione professionale e privata, si toglievano la vita. Buffo, no?! Sono state probabilmente le uniche persone al mondo, che avrebbero potuto tranquillamente affermare ad alta voce di aver realizzato tutto ciò che si erano prefissati e di aver inoltre raggiunto traguardi migliori e inaspettati rispetto al previsto e, non solo sembra quasi che ne fossero dispiaciuti, ma addirittura stabilirono, di punto in bianco, di non volerne possedere e respirarne un minuto di più. In pratica, dei folli!
La stia era del bisnonno di Annamaria, il signor Mario Carlo Sole deceduto, fortunatamente per lui ma non per me, per morte naturale. Sfortunatamente per me, dicevo, perché con tale notizia, le mie indagini si arenavano in quel pollaio, in quel 1804 – data in cui Annamaria si tolse la vita – esattamente trent’anni prima di Leo. O forse questo poteva essere un altro indizio? No, forse era solo coincidenza… una mia suggestione… Ok, avevo bisogno di un’illuminazione, così mi convinsi che quei trent’anni tondi tondi fossero i portatori di un significato recondito. Inoltre, ero troppo entusiasta della mia ricerca: dovevo sapere. Ero di giorno in giorno più impaziente e ossessionata.
Dunque, retrocessi di trent’anni e mi ritrovai nell’anno 1774. Mi concentrai su di esso. Cercai, cercai e cercai ma, oltre a ricordarmi che nel 1774 iniziò il regno dello sfortunato re di Francia, Luigi XVI, non individuai altro. Il caso vuole, che veniva anche chiamato Il Desiderato… chissà che non fosse collegato! Risi: stavo perdendo la testa in questa vicenda! Ritornando alle nostre due famiglie, Fonte e Sole, non c’era nulla che potesse far sospettare qualcosa di bizzarro. Solamente, forse, la sorella di Annamaria, maggiore di ben dieci anni, ovvero Caterina Sole prese i voti un mese dopo la morte della prima. Beh, la chiamata di Dio le era arrivata in età avanzata e con un certo tempismo fatalistico! Chissà se nel frattempo se l’era spassata un po’… ok, ok, la smetto: non è bene parlare in modo così frivolo di chi non può replicare, soprattutto se tale individuo è morto. Certo, è passato talmente tanto tempo che, per chi ci crede, potrebbe essersi già rincarnata in una nuova esistenza. Magari, un giorno di questi, verrà a bussare alla mia porta per rinfacciarmi ogni mia ridicola battutina nei suoi confronti. O magari verrebbe per svelarmi il mistero… In ogni modo, Caterina era infine deceduta serenamente nel sonno alla veneranda età di ottant’anni: la regola del trenta con lei non si era ripresentata.
Tuttavia io ero testarda, lo sono sempre stata: testarda, vivace e curiosa. “Sei malata di curiosità”, mi aveva spesso e volentieri definito mia madre e conseguentemente aveva aggiunto, come monito, un avvertimento, un consiglio mai ascoltato: “La troppa curiosità spinge l’uccello nella rete”. Perché io invece puntualmente ribattevo con una frase di Samuel Jhonson: “La curiosità è una delle caratteristiche più certe e sicure di un intelletto attivo”. Un modo per convincere me e gli altri della mia intelligenza… qualcuno aveva detto che l’importante fosse crederci.
Dunque, ricapitolando, spinta da questo irrefrenabile impulso, retrocedetti ancora di altri trent’anni. In fin dei conti, che male poteva fare scavare dentro una verità che pareva neppure esistere? Al massimo avrei perso del tempo, ma chi può giudicarlo davvero tempo perso? Io stavo facendo ciò che desideravo, contava davvero qualcosa il risultato? Certo, sarebbe stato meglio raggiungerne un qualcheduno, in ogni modo, non era male neppure il tragitto, non vi pare?
Anno 1744.
Negli archivi della polizia di Esperia, in provincia di Frosinone, nel Lazio – la piccola cittadina di appartenenza dei nostri sventurati ma paghi protagonisti – compariva il suicidio di una giovane esperiana, il suo nome era Serena Ali.
Pare che si fosse gettata in un pozzo sotto gli occhi dei suoi fratelli maggiori. Il referto raccontava che danzava allegra per i campi, intonando una canzoncina, finché ad un tratto, chissà per quale contorto pensiero o forse era semplicemente il gesto incosciente di una bambina, si arrampicò sul bordo del pozzo. Vi si mise in piedi e si voltò sorridente verso i propri fratelli che la stavano ora raggiungendo per raccomandarle di scendere, perché era ovviamente pericoloso stare lì in equilibrio, volevano avvertirla come mia madre con me e la curiosità; e Serena, esattamente come me, non gli ascoltò, anzi, scoppiò impunemente a ridere. Li guardò per un istante, con un’eccentrica luce negli occhi (così specificava il fascicolo) e infine gli disse: “Io sono Serena, ricordatevelo miei amati fratelli. Io sono Serena e lo sarò per sempre. Salutatemi, mamma!”. Dopo di che, si lasciò cadere nel pozzo.
Serena Ali si uccise all’età di dieci anni, forse – scrissero – senza rendersi pienamente conto che precipitando nel pozzo non sarebbe sopravvissuta; soprattutto perché lei non aveva nessun apparente motivo per dire addio alla propria vita. Tuttavia a dieci anni, in genere, intuisci quanto può finire male se, ad esempio, ti leghi alle rotaie di un treno, ti tagli la gola con un coltellino, corri incontro ad una mandria di tori inferociti, ti butti in un pozzo del quale si vede a malapena il fondo… O forse era folle, come quegli altri delle famiglie a lei successive, di cui molto ci siamo occupati sin’ora.
Non mi fermai qui.
Anno 1714, 1684, 1654, 1624, 1594, 1564, 1534, 1504… e via scorrendo. Non ottenni più alcun fatto insolito. Tutti sembrano aver vissuto silenziosi, pacifici, regolarmente, in un modo più o meno normale, naturale, prima dell’eccentrica decisione della giovanissima Serena. Tutto partiva in qualche modo da lei? Tuttavia, Serena Ali non aveva alcun legame di parentela con la famiglia Sole, Fonte e Manto. Altro punto morto.
Cominciavo a disperare. Era presumibile che non vi fosse alcuna motivazione razionale e logica dietro i vari suicidi rivelati. Erano solamente dei fatti fini a se stessi. La gente non si comporta mai come ci si aspetta. La gente non agisce sempre seguendo la ragione e quando non lo fa, è difficile trovare il capo delle proprie riflessioni che hanno condotto a quel determinato comportamento. Si è semplicemente agito, punto. Niente di più. E la gente si toglie vita, capita, è sempre successo, non è una novità. Non è neppure insolito. Forse erano stati beffardi. Forse Leo Manto sapeva di Annamaria e volle dare un retrogusto canzonatorio alle sue ultime parole? Forse si starà divertendo da morire, lì, da dovunque mi stesse ora guardando, mentre m’impuntavo e mi scervellavo nella vana ricerca di una possibile interpretazione di ciò che scrisse, quando un senso non ha. Rideva, sì, verosimilmente stava ridendo da mesi e mesi di me.
A Esperia non ero mai stata, pertanto decisi di visitarla per benino. Esperia, comune italiano di quasi quattro mila abitanti. È posizionato alle pendici del Monte Cerubo. È circondato da boschi e monti. Si può trovare una via Torre, una via Ospedale, una via Ragazzi del ’99 (un giorno gli avrei dedicato una ricerca personale), via degli Archi, via Castello, via della Fontana, via Accorciatoia, via Castagne, via dei Monti, via Aranci, via Rave Grossa, via Vigna, via degli Ulivi, via Tasso, via dell’Unione… che bei nomi! Nella mia città e in quelle adiacenti, esistevano solo vie dedicate a personaggi storici, sempre gli stessi, tra l’altro. Comunque, questo non mi era sufficiente. Avevo bisogno di una vera distrazione e, l’unica maniera che io conoscessi per invogliarmi a entusiasmarmi in altro per abbandonare la mia precedente fissazione, era concentrarmi in una nuova ricerca. Volevo sapere sempre tutto di ogni cosa: questo mi dava felicità. Mi seppellii come mia abitudine in una biblioteca. L’odore dei libri antichi, era inebriante, ne ero innamorata. Lo aprivo all’incirca a metà e mi ci tuffavo con il naso. Respiravo a fondo e mi ritrovavo con le labbra curvate all’insù, neanche se fosse pollo arrosto: il mio piatto preferito. Ogni volta che i miei fratelli mi rompevano un giocattolo – cosa che avveniva assai di frequente – mamma si recava al centro commerciale più vicino dove, accanto alla salumeria, cucinavano un saporitissimo pollo arrosto.
In biblioteca mi dedicai alla storia di Esperia, partendo dalle sue origini, scoprendo che riprendeva il nome designato alla penisola italiana dagli antichi greci. Inoltre, il 26 aprile 1861, Giovanni Virginio Schiaparelli, un astronomo nato a Savigliano, scoprì l’asteroide 69 che chiamò Hesperia; e casualità vuole, che da allora sono passati centocinquant’anni, come per la nascita della nostra Italia Unita. Pare ci sia davvero molto da festeggiare, ad esempio, un mucchio di coincidenze. Io non ho mai creduto alle coincidenze, perché iniziavo proprio adesso? Esperia era dunque il principio di ogni cosa? Ma di tutto cosa, esattamente?
Mi rendevo perfettamente conto, che sembrava che mi stessi vagamente arrampicando sugli specchi, ma dovevo sapere o non avrei mai avuto pace. Io dovevo sapere.
Perfetto, mi dissi, se non potevo più andare indietro, sarei andata… avanti.
Anno 1864. Oreste Manto si getta da un ponte all’età di ventitré anni. Era il figlio di Daniele Angelo Manto, figlio a sua volta di Leo Manto.
Anno 1894. Mattia Gola, marito di Lucia Manto figlia di Oreste Manto, si pugnala dopo aver rimesso a pieni titoli nel mercato la panetteria di famiglia, il più grande sogno del nonno. 
Anno 1924. Antonietta Gola Fiore, nipote di secondo grado di Mattia Gola, si taglia le vene nella camera da letto della sua nuova casa da sposina, il giorno dopo le nozze (fu così disastroso il marito… o forse insopportabilmente magnifico?).
Anno 1954. Stefano Fiore, fratello di Antonietta Gola Fiore, ingoia una dose eccessiva di anfetaminici dopo aver chiesto agli amici di vivere in maniera “triste” anche per lui.
Anno 1984. Valentina Merlo, figlia di Simona Fiore, figlia a sua volta di Stefano Fiore, si arrampica su di un albero e da lì si lancia per aria con le braccia aperte, gridando di poter finalmente volare, adesso… Sbatte la testa e muore sul colpo.
Inquietante. Questa vicenda era oltremodo inquietante. Ciò significava che avessi tre anni di tempo per capirne la causa ed evitare così il successivo suicidio-felice? Perché mi ero ficcata in questa situazione? Perché non mi facevo mai i fatti miei? Mia madre me lo ripeteva continuamente…
Era il 1999, avevo quindici anni e tanta voglia di esplorare il mondo e me stessa. Si era appena consumato l’ennesimo litigio con mio padre, non ricordo su cosa si fosse incentrato, non credo sia importante, si trattava delle solite discussioni che s’infiammano tra due generazioni diverse. Avevo recuperato dalla soffitta la valigia dei viaggi estivi, che avevamo utilizzato sinché mia madre non restò incinta dei miei due fratellini gemelli, Alessio e Giulio. All’inizio furono sospesi i viaggi di famiglia, perché era complicato portarsi dietro i due mocciosi, dopo perché si era persa l’abitudine, come per tante altre cose, come per tutti.
Trascinai la valigia giù per le scale, rischiando un notevole numero di volte di precipitare giù con essa. La fortuna, o forse perché non era semplicemente arrivato il mio momento, mi permise di giungere indenne al piano della mia cameretta. Chiusi la porta a chiave e riempii la valigia delle mie cose, fra vestiti, riviste, diari segreti e gioielli di bigiotteria, finché si poté. Volevo fuggire ma non avevo fatto i conti con il peso della valigia, che ora si era praticamente triplicato; e con mamma che a braccia conserte, sentendo gli strani rumori che avevo provocato, mi aspettava sul ciglio della porta di casa. Io, più che scappare, volevo scoprire ciò che ci fosse al di là della nostra cittadina. Volevo viaggiare e volevo essere indipendente ma soprattutto libera; e mi sentivo così in gabbia in quella mia insulsa adolescenza. Mamma non me lo permise.
Tornata allora in camera mia, con la valigia mezza disfatta con il suo contenuto sparso in giro per la stanza per la rabbia provata, mi venne l’idea di tentare un altro tipo di esplorazione. Chiusi la porta a chiave e alzai al massimo il volume della radio. Davano una canzone della Pausini, era ai massimi livelli della sua giovane carriera. Mi distesi sul letto e allungai una mano tra le mie gambe… La felicità della scoperta non durò a lungo, perché la volta successiva già sapevo cosa fare e cosa avrei provato. Ed io ero avida di sapere. Volevo toccare il mondo ma ero finita per mettere il dito tra moglie e marito.
Giuro che fu una casualità! Non era mia intenzione ma… lo sorpresi sotto un pino, avvinghiato ad una donna che in seguito seppi fosse il suo capo d’ufficio, della villa comunale a trenta chilometri di distanza da dove era residente con la moglie. Come ci sono finita? È stato il mio stesso senso. Sentivo che nascondeva qualcosa, che non mi convinceva particolarmente la sua versione di abbandonare la festa di compleanno, del suo primogenito di tre anni, per incontrarsi con il suo capo e colleghi d’ufficio per un’urgente riunione di lavoro. In fin dei conti, non aveva del tutto mentito… ed era anche vero che, siccome nell’ultimo periodo erano stati partecipi di diversi scioperi contro certe riforme del Governo, era plausibile che volessero incontrassi per discuterne. Ok, io avevo appena preso la patente, esattamente da due mesi e undici giorni, e cercavo continui escamotage per metterla in moto. Per questa ragione, lo seguii… Raccontai tutto a mia zia, un’altra mia zia, che era la sorella del marito che le faceva le corna, che raccontò tutto a quest’ultima e fu così che decisero di divorziare. Mia madre mi disse: “Tu i fatti tuoi mai, non è vero?”. Potrei stare qui a raccontarvi tantissimi altri episodi ma finirei per annoiarvi o per portarvi fuori strada.
Siamo qui per smascherare la verità del signor Leo Manto e di tutti quegli altri che lo precedettero e poi susseguirono nel medesimo gesto definitivo, nonostante fossero entusiasti e beati, semplicemente felici. Forse dovevo prestare attenzione proprio su quest’ultimo particolare.
Digitai su internet la parola: felicità. Tutte le definizioni che trovai su di essa, includevano invece la parola “istante”. La felicità è un istante non una condizione dell’essere.
Pertanto, tutte queste persone, avevano provato una contentezza troppo intensa e per un periodo eccessivo per poterla tollerare un solo minuto in più? Che si trattasse di un’ipotesi assurda lo comprendevo perfettamente da me.
Mi sono appena resa conto, di non avervi raccontato l’episodio irrisolto, che mi ha oggi condotta sino a qui. Quando tutto ebbe inizio, era un pomeriggio di fine settembre, l’aria era ancora calda e umida, e si profumava ancora di mare e granita. Mi ero recata in biblioteca per un’altra ricerca che riguardava le nuvole. Le nuvole, come già ben sapete, sono delle idrometeore costituite da cristalli di ghiaccio o da minute particelle d’acqua o da entrambi, con la caratteristica di poter restare perennemente sospesi nell’atmosfera. Non toccano mai terra, chissà come dovevano sentirsi: forse come noi che non possiamo volare, desiderano al contrario di poter camminare? Di provare il senso della gravità che ti tiene ancorato alla Terra, che ti fa sentire sotto i piedi il suolo e ti fa credere di esserne quasi un tutt’uno; e avvertire il vento su di te perché stai correndo e non volando; o la sensazione di appartenere al mondo. Noi bramiamo la libertà come loro il legame con qualcosa di tangibile?
Le nuvole esistono anche nell’universo, non sono una prerogativa della Terra. Si formano anche su di altri corpi celesti o su dei satelliti. Oppure, sparse qua e là, nello spazio interstellare, ma come agglomerati di gocce di vapore acqueo. Le nuvole, inoltre, sono una delle meraviglie del creato più poetiche che ogni giorno possiamo ammirare. Possono tingersi del colore del sole, dell’arcobaleno, del nero più spaventoso o del grigio più tetro, oppure ancora di un bel candido bianco: sembra quasi che possano provare i nostri stessi sentimenti. Anche il nostro viso cambia colore a seconda delle nostre emozioni, solamente che noi, a differenza loro, ce ne vergogniamo e tentiamo di nasconderlo o di cambiarci, di renderci più sicuri di noi, più… asettici e indifferenti.
In ogni modo, il loro colore più diffuso e naturale, ovviamente è il bianco. Un mistico indiano, Rajneesh Chandra Mohan Jain, o più comunemente, Osho Rajneesh, nel suo libro “La mia via. La via delle nuvole bianche” scrisse: l'uomo libero è come una nuvola bianca. Una nuvola bianca è un mistero; si lascia trasportare dal vento, non resiste, non lotta, e si libra al di sopra di ogni cosa. Tutte le dimensioni e tutte le direzioni le appartengono. Le nuvole bianche non hanno una provenienza precisa e non hanno una meta; il loro semplice essere in questo momento è perfezione.
È tra le sue pagine che trovai il biglietto di Leo Manto, o meglio, una fotocopia dell’originale. Come può esserci finito? È un altro bel mistero, che come per i precedenti, non ho ancora scovato nessun appiglio per poterlo svelare.
Forse dovrei rassegnarmi alla consapevolezza che non tutte le domande possono avere una risposta. Sono da sempre stata convinta che se giungevamo a porci un determinato quesito, ciò significava, che da qualche parte nell’universo, si era allo stesso tempo formata una soluzione. Perché gli umani immaginano tantissimo, ma non si discostano mai poi così tanto dalla realtà; ma ne rimangono sempre in qualche modo appigliati. Come se temessero, che allontanandosene un po’ di troppo, potessero smarrirne la via del ritorno, il ritorno alla realtà; e che quindi, da quel momento in poi, rischiassero di perdere per il resto della loro vita la propria credibilità nella società esistente alla loro vita. L’uomo è così terrorizzato dalla “pazzia” da non rendersi conto che da pazzi è proprio la costante paura che guida e accompagna ogni nostra azione. Siamo così diversi da una nuvola bianca, da quella nuvola libera… siamo, seguendo il ragionamento di Osho, così incredibilmente imperfetti.
Eppure, i personaggi in cui ho indagato sembravano proprio delle nuvole bianche, sembrano perfetti ma è un errore. Perché qualcosa deve essere andato storto.
Ritornai allora ai dati già in mio possesso, rileggendoli per l’ennesima volta, come se potesse essermi sfuggito qualcosa, un particolare fondamentale, l’illuminazione del momento: anno 1864, 1894,1924,1954,1984… 1984. Sorrisi. Qualcosa mi era effettivamente sfuggito, anche se non aveva nulla a che vedere con la vicenda in questione. Il 1984 è l’anno in cui nacqui. Ho ventisette anni e fra tre ne avrò trenta: che numero fatalista alla luce delle mie investigazioni!
Vivevo da sola da ormai più di nove anni. Attualmente, ero in affitto in un appartamentino al quinto piano senza ascensore, di un antico edificio in pietra con il tetto in legno. La mia curiosità mi aveva sempre guidata distante dagli statici programmi di studio che il Ministero dell’Istruzione realizzava per le scuole. Lo studio non mi aveva mai spaventata, ma spesso annoiata, perché necessitavo di continui stimoli mentali ed un libro, che a cicli alterni ripeteva gli stessi concetti, solamente in maniera di volta in volta più approfondita, non riusciva nell’intento. Sapevo molte cose, molte più di tutti i miei compagni di classe messi assieme, ma erano tutte cose inutili per i fini dei programmi scolastici. I miei insegnanti si erano spesso disperati, troppe volte ne avevano anche discusso con i miei genitori, considerando un vero peccato la mia intelligenza sprecata per la scarsa volontà con la quale mi applicavo nelle loro materie. Inoltre, ero anche una ragazzina ribelle e vivace, tante erano anche le volte in cui finii in corridoio, dietro la porta e fuori dalla classe… La mia condotta non era mai stata costellata da buoni voti. La stessa sorte toccò all’università: ero incuriosita da talmente tanti argomenti differenti, che alla fine non ne scelsi nessuno e tutti. Non m’iscrissi in nessuna facoltà, ma come potete ben vedere, non ho mai smesso di tentare di soddisfare la mia incessante curiosità. La mia fonte della felicità.
Avevo un curriculum piuttosto vasto: la parte dove elenco i lavoretti da me svolti, sembra non avere fine. Ti viene persino da domandare, se una persona in una sola vita, possa aver davvero mai provato così tante mansioni differenti; ma in questo non sono un’eccezione: quasi tutti i curriculum vitae della mia generazione sono costituiti da un simile elenco, anche quelli che hanno scelto una facoltà e vi si sono laureati. Attualmente, ero una commessa di un centro commerciale.
Frustata aprii il cassetto della mia scrivania e tirai fuori la siringa. M’iniettai la mia dose di cocaina giornaliera. Mi avrebbe aiutato a mettere a fuoco le cose. Forse mi avrebbe portato alla soluzione o in ogni caso mi avrebbe fatto sentire euforica e…
Gettai la siringa per terra. Oh, merda! Ormai era tardi: me l’ero iniettata tutta. Già la vista mi si stava annebbiando e i miei sensi si esaltavano più del solito…. Sarebbe bastato solo un istante prima… se solo avessi compreso un istante prima quel “eppure”…
Tentai di reggermi sulla sedia, mi accasciai con la testa sulla scrivania e poggiai una mano sul mouse. Lentamente misi a fuoco lo sfondo e le icone del desktop. Aprii Microsoft Word e digitai:
LA FELICITA’ E’ UN ISTANTE.
LO PERCEPISCI QUANDO TI FAI… LO SAI CHE DURA POCO MA LO RICERCHERAI FINCHE’ NON TOCCHERA’ IL PUNTO MASSIMO E TI PORTERA’ VIA CON SE’ .
PERO’ È UN BELL’ISTANTE.
SONO COMPIACIUTA DI AVERLO VISSUTO, COME DI AVER SVELATO IL MISTERO… LA MIA CURIOSITÀ ORA È SODDISFATTA, E ANCHE QUESTO È FELICITÀ. ANZI, QUESTA È LA MIA FELICITÀ. L’HO CAPITO TRE ANNI PRIMA DEL PREVISTO… FORSE CON ME SI CONCLUDERÀ IL CICLO…
MA SE COSI’ NON FOSSE… ATTENTI, MIEI CARI LETTORI!
POTREI VOLARE DI FAMIGLIA IN FAMIGLIA FINO A RAGGIUNGERE VOI… MI BASTERANNO SEMPRE MENO ANNI… E POI, ADESSO, CON LA GLOBALIZZAZIONE E TUTTO IL RESTO, POSSO RITROVARE UN PO’ DELL’ANTICO NOME DELL’ITALIA IN OGNI PARTE DI QUESTO PICCOLO MONDO… TONDO, TONDO…
IN FONDO, NON HO ANCORA COMPRESO PERCHÈ SIA INIZIATO TUTTO DA ME… O CHE LEGAMI AVESSI CON LA PRIMA DOPO DI ME, ANNAMARIA FONTE, FORSE SUCCEDE COSÌ DAL PRINCIPIO DEI TEMPI?
OH, QUESTO LO LASCERÒ A VOI… AVETE TRENTA, ANZI DA OGGI VENTISETTE ANNI DI TEMPO A PARTIRE DA ADESSO, PER CAPIRE TUTTO CIO’ CHE ANCORA C’E’ DA SVELARE…
PER PRECAUZIONE, IN OGNI MODO, SIATE SEMPRE UN PO’ SCONTENTI…
SERENA MERLO
(un attimo prima di crollare sul pavimento per un’overdose)




                                 5 PER LA VIA 
Camminava lentamente.
Camminava come tanta gente, libera dal tempo.
E se sei libera dal tempo, le cose sono due: o sei un umano speciale, al di sopra di molti, che è riuscito finalmente a sprigionarsi dal ticchettare di un orologio; oppure sei un umano disoccupato e non hai nulla da fare.
Mary era un’umana disoccupata e cercava camminando per strada il suo qualcosa da fare.
Era già entrata in tre negozi che cercavano commesse e in un bar che cercava invece un addetto alla cassa. Tutti le avevano sottolineato perentori che la persona che pretendeva tal lavoro dovesse portare con sé una parola magica: esperienza. Ma l’unica esperienza di Mary, che risaltava nel suo CV, erano i suoi contatti con i testi scolastici o al massimo con insegnanti e colleghi d’università, non aveva mai conversato con ordinazioni e contanti, né aveva mai cercato di persuadere qualcuno a comprare un determinato capo. E nonostante si fosse resa disponibile a conoscere qualsiasi Esperienza, nessuno era stato disposto a presentargliene qualcuna.
Così camminava a passi lenti sul marciapiede, scrutando attentamente ogni vetrina che superasse, con poche speranze ormai.
Il giorno prima ad esempio, le era stato chiesto persino di avere esperienza nel “portare a passeggio un cane”, ma anche di bambini.
“Non sei madre, non hai mai avuto fratelli più piccoli da accudire e non hai mai fatto la babysitter prima. Come posso fidarmi?”, le aveva quasi strillato la madre di un bimbo di otto anni, che per un attimo Mary aveva sperato potesse divenire il suo datore di lavoro, se pur temporaneo.
Quindi, doveva rimproverare sua madre per non aver concepito nessuno dopo di lei, perché per colpa sua non le sarebbe mai stata concessa la possibilità di fare esperienza come babysitter.
“No, non sono una madre”, le aveva risposto. “E di questo passo, non credo oserò mai diventarlo”.
Mary si fermò davanti ad una vetrina che mostrava peluche di ogni dimensione e tipo. Ricordò che da bambina andava letteralmente pazza per i peluche: la sua cameretta ne era stracolma. Osservandoli, le sembrò che anche loro erano in attesa, come lei, di un miracolo: la stanza dei bambini era oggi stracolma di altri giocattoli, per lo più elettronici, non di loro.
Mary agì d’istinto, entrò nel negozio decisa ad acquistare l’orsacchiotto con gli occhiali, quello grande quasi quanto lei. Era bellissimo, pensò, e dopo averlo accarezzato si rese conto che avrebbe facilmente potuto smarrirsi in quel gesto. Era morbidissimo.
Non sapeva ancora come avrebbe fatto a portarselo via, ma era ormai decisa ad averlo. Non poteva lasciarlo lì da solo a deprimersi ancora.
Uscì dal negozio con un mini-peluche a forma di tartaruga che sembrava più un portachiavi. Le era costato ben 15 euro! Pensò che i peluche al giorno d’oggi venissero venduti un euro al “pelo”, immaginatevi pertanto in proporzioni quando le chiesero per l’orso gigante! Lei volle dimenticarlo e non si meravigliò più che i bambini preferissero i videogames.
Iniziava a sudare. Era ottobre ma sembrava ancora piena estate. Avvistò una panchina libera, sotto una quercia un po’ stressata dal traffico circostante, dall’altra parte della strada. Raggiunse le strisce pedonali e aspettò pazientemente che scattasse il verde per i pedoni. Attese dieci minuti per vederlo accendersi di verde e dovette affrettare i suoi passi, anzi dovette correre, non appena si trovò al centro esatto della corsia e il verde si spense a favore dell’arancio, affinché potesse vivere ancora un altro pochino… Fece appena in tempo a posare il piede sul marciapiede che il semaforo divenne rosso e i suoi capelli svolazzarono sgomenti al passaggio veloce delle auto alle sue spalle. Dieci minuti con il rosso e dieci secondi con il verde!
Quando sarò vecchia e per camminare avrò bisogno di un bastone, pensò, dovrò ricordarmi d’installargli un motore a propulsione!
Riprese a camminare per raggiungere la sua meta e si augurò che fosse ancora libera. La scorse e si accorse che lo era ancora, per fortuna!
Sospirò e le si avvicinò a grandi passi, stavolta, ormai stava per sedercisi quando sbucò al suo fianco un signore che si reggeva a stento sul proprio bastone della vecchiaia.
“Vuole…”, sedersi lei?, avrebbe voluto proporgli cortesemente, ma lui la precedette, piuttosto irritato, esclamando: “L’ho vista prima io!”. La strattonò e si sedette sulla panchina. “I giovani d’oggi non hanno più rispetto per gli anziani!”.
“Ma se le stavo per l’appunto dicendo che…”, ma s’interruppe cercando di ricordarsi che anche lei un giorno sarebbe stata come lui. Quindi il suo torno ritornò sereno e aggiunse: “C’è sempre posto per due!”.
Lui le lanciò un’occhiataccia indignata.
“Certo, per te e per il tuo ragazzo, immagino! Ed io… io sarei stato di disturbo, no? Ma ai miei tempi il padre della mia rispettabilissima e amata consorte, non ci avrebbe mai permesso d’incontrarci di nascosto e da soli, per fare chissà cosa, comportandosi con gli anziani di passaggio, nel frattempo, in maniera tanto maleducata e….”.
Mary non seppe mai cosa altro fosse, oltre a una giovane maleducata che fa chissà cosa con un ragazzo inesistente. Perché gli diede le spalle e lo abbandonò ai suoi sproloqui, che sembravano non richiedere la presenza di un interlocutore: proseguivano anche in assenza di Mary.
Il suo passo adesso era più svelto, mentre si allontanava borbottando: “Spero che il tuo bastone abbia un motore a propulsione difettoso, imbecille, ignorante, cafone d’un vecchiaccio!”. Gli aggetti che gli affibbiò furono molti di più, a dire il vero, ma io ho preferito riportarvi soltanto i più “cortesi”.
Mary marciava adesso a testa bassa, a passi svelti, senza guardarsi intorno, così non si accorse di un ragazzo che le camminava davanti: gli finì addosso. Questo si voltò sorpreso verso di lei, mentre lei con lo stesso stato d’animo solleva lo sguardo su di lui.
“Ma non guardi dove cammini?”, esclamarono infastiditi entrambi.
Lui aveva due splendidi occhi castani, somigliavano al cioccolato, e per questo sembravano davvero molto buoni! Lei invece aveva un viso liscio e insolito, con un’espressione molto perspicace. Ma nessuno dei due si accorse di questi particolari dell’altro. Si oltrepassarono in fretta mandandosi vicendevolmente a quel paese.
Mary era esausta e senza speranza. Eppure quella mattina si era svegliata con così tante buone intenzioni! Le era sembrato di possedere energie inesauribili, il potere di portare nella propria vita ciò che desiderava, di poterla cambiare in meglio in ogni momento, la vita le sorrideva e voleva donare questi sorrisi a chiunque incontrasse, e aveva addirittura pensato di poter incontrare il suo grande amore! O qualcosa che gli si assomigliasse, per un po’…
E invece, si ritrovava sola e disperata, con una certa rabbia dentro che sarebbe potuta rigettarsi anche su un gattino indifeso, se questo le avesse tagliato la strada proprio in quel momento, e avesse persino osato avere il pelo nero! Non sapeva che il “pelo” va al chilo? Con tutto il suo pelo avrebbe guadagnato i suoi tre successivi pasti! Peggio per lui, che era incappato sul suo cammino credendo di poterle portare sfortuna.
Sospirò e si lasciò scivolare sul bordo del marciapiede. Il caldo la opprimeva e i suoi piedi pulsavano di dolore. In testa sembrava che qualcuno avesse aperto una discoteca con musica house a tutto volume. Nel cuore invece… le sembrava che fosse già giunto l’inverno.
Cominciò a piangere.
Se ne restò lì seduta per molto tempo a piangere. Così tanto che ad un certo punto le lacrime smisero si scorrergli in viso anche se lei si sentiva ancora triste e disperata.
Come finirà quest’oggi?, si chiese. E domani? Come farò a far sì che non sia come oggi?
Di colpo riacquistò le forze, come se quella domanda fosse stata la pillola della vitalità. Si alzò e riprese il suo cammino, riprendendo a scrutare i negozi lì intorno. Qualcosa l’avrebbe trovata, se non oggi, allora domani e se non domani un giorno! E se non l’avesse trovata, se la sarebbe fabbricata da sé. Si mise a ridere per questo suo pensiero e così riacquistò anche l’ironia.
D’improvvisò sentì piangere. A pochi metri da lei una bambina strillava perché tre altri bambini le avevano fatto cadere il gelato ed ora correvano ridacchiando via da lei. Mary la raggiunse e le s’inginocchiò vicino.
“Le tue lacrime non faranno tornare il tuo gelato”, le disse.
La bambina la osservò con sguardo truce, come se volesse ribatterle: ah, ah, ah! Ci volevi tu a dirmelo?
Mary si sentì stupida e ogni sua parola le sembrò banale e scontata, ma si riprese subito e proseguì.
“Io lo so, perché anch’io voglio qualcosa che non posso avere se continuo a piangere”.
“E cosa vuoi?”, le chiese allora la bambina.
“Voglio… voglio un lavoro. Ma non riesco a trovarlo come lo vorrei io, neppure come non lo vorrei a dire il vero…”.
Ora Mary sembrava parlare più a sé che alla bambina.
“Ma io voglio il mio gelato. Perché me lo hanno fatto cadere?”.
“E perché non mi prendono senza esperienza?”.
“Cosa?”, domandò la bambina confusa che in compenso smise di piangere. La stranezza dell’adulta che le stava dinnanzi l’aveva distratta dalla sua “disperazione”.
“Oh, niente, niente…”, si precipitò a correggersi Mary. Poi guardò la bambina attentamente negli occhi. “Dove tua madre?”.
“E’ la proprietaria della gelateria”, e così rispondendo indicò la gelateria a pochi passi da loro, che Mary non aveva ancora notato. Ma ora era lei ad essere perplessa.
“Tua madre è la proprietaria di una gelateria? E perché non ti fai fare un altro gelato da lei?”.
“Perché non me lo darà. Sono grassa per lei. Uno alla settimana è sufficiente”.
“Ma tu non lo hai mangiato”.
“Non mi crederà. Penserà che stia mentendo”.
Mary ci pensò su mentre s’infilava le mani in tasca e toccandolo le venne un’idea. Lo tirò fuori e lo porse alla bambina.
“Non hai più un gelato, ma se vuoi in cambio puoi avere questo”.
Mary si sentiva soddisfatta adesso, mentre riprendeva il suo cammino. Quei 15 euro per quel portachiavi-peluche erano serviti a far tornare il sorriso a una bambina. I peluche funzionavano ancora.
Passò accanto a un bar e seduto su uno dei tavolini all’esterno notò un viso familiare. Dovette rifletterci un bel po’ per ricordarsi che quella mattina erano finiti l’uno contro l’altro. Che coincidenza, pensò e lo superò. Tre passi e si fermò di colpo.
“Non hai trovato un lavoro oggi, ma se vuoi puoi avere in cambio una diversa possibilità”, si disse.
Tornò sui suoi passi e raggiunse il ragazzo che da solo si beveva un caffè leggendo il giornale.
“Ci sarà una buona notizia, lì in mezzo?”, esclamò Mary.
Il ragazzo sollevò il suo sguardo su di lei, stavolta senza fretta né con irritazione, e si guardarono veramente. Mary si sorprese della dolcezza che emanava, mentre lui della intelligenza che trasmetteva.
“Possiamo cercarla insieme”, rispose il ragazzo. “O al massimo, ne scriveremo una noi”.
Mary allora si sedette al suo tavolo.
“Ci siamo già visti da qualche altra parte?”, domandò lui scrutandola attentamente.
“No, credo che non ci siamo mai visti prima… come ora”, rispose Mary di nuovo piena di speranze. 



6 PER UN BACIO 
Era un giorno di festa.
Mimmo era sulla cima di una scala, al centro del suo negozio di bomboniere, intento a sistemare e rifinire le decorazioni. Il suo viso era imbronciato, come se le disapprovasse. Concentrato com’era, non si accorse dell’arrivo di Sara.
Sara era slanciata ma con un corpo formoso, bionda con occhi chiari e grandi, dal viso delicato e… di un altro pianeta. Nel vero senso del termine.
Sara proveniva da Gliese581g (nome tecnico poco carino dato dai nostri studiosi del cielo) distante da noi 20 anni luce. Un pianeta molto simile alla Terra. 
Gliese581g, noi terrestri, lo avevamo scoperto cinquant’anni addietro. Mentre gli abitanti di Gliese581g sapevano di noi da più di mille anni, ormai. Alla domanda di Mimmo, del perché non fossero giunti prima sulla Terra, dato che le conoscenze e i mezzi per farlo li possedevano già, aveva risposto: “Eravamo felici anche senza incontrarvi”.
Sara adesso si avvicinava lentamente e silenziosamente allungava una mano sulla scala sotto a Mimmo.
Sara non era il suo vero nome. Lo aveva scelto perché Sara era stata la prima umana incontrata al suo arrivo e anche perché, secondo il suo parere, gli umani non sarebbe stati in grado di pronunciarlo. La loro lingua era troppo complicata per noi, almeno per ora, non eravamo pronti.
Sara sfiorò il piede della scala… I fuochi d’artificio, provenienti dalla piazza ad un isolato da lì, destarono l’attenzione di Mimmo, che si accorse d’improvviso di lei.
“Traballava”, rispose lei ad un muto punto interrogativo. “Voglio aiutarti”.
Mimmo scese dalla scala e si avviò per riporla nel ripostiglio.
“Ho finito”, disse e riprese posto dietro al bancone. “Perché te ne stai lì in piedi a fissarmi? Perché non sei in piazza?”.
“Sono anche di là”, rispose lei.
“Non mi piace quando fai queste cose”.
“A me non piace stare lontana da te. Ma tu mi hai detto che sarebbe stato maleducato non presenziare alla festa”.
“Che festa sarebbe senza la festeggiata?”.
“Non l’ho chiesta io”.
“Non è comunque carino esserti divisa in due”.
“Anche voi lo dite spesso”.
“Ma non in senso letterale. Alla fine scegliamo sempre da che parte stare”.
“Solo perché non potete fare altrimenti”.
Mimmo accese le luci della vetrina.
“Io non ti voglio qui”.
“Questo non sembra molto carino da dirsi”.
“Infatti, non voglio essere carino”.
“Perché tu puoi essere maleducato ed io no?”.
Mimmo aggirò il bancone, prese Sara per un braccio e la trascinò verso l’uscita.
“Li ferirai”.
“Chi è che nella vita non ha mai ferito qualcun altro?”, esclamò lei.
Mimmo la osservò per un momento. Una donna con un passeggino si soffermò a contemplare la vetrina. Non poteva sapere che fosse a sua volta guardata. Mimmo attese che andasse via, prima di replicare, con tono mesto ma deciso: “Mi ferirai e non t’importa, nonostante non fai altro che sostenere che preferiresti stare sempre con me”.
“Perché tu sei il mio umano preferito”, rispose lei con semplicità. Tutte le sue risposte lo erano: facili e distaccate, e per questo con un retro gusto surreale. Nonostante le apparenze, era evidente che lei non fosse di qui…
“Perché?”.
Sara gli accarezzò una guancia. Poi si soffermò sulle labbra.
“Noi non produciamo ossitocina. I nostri baci non creano dipendenza… i tuoi, sì”.
Gli si accostò con le labbra, ma Mimmo si scansò alla svelta. Aprì la porta del suo negozio e dalla sua soglia si fermò ad osservare un grande flusso di gente che si dirigeva verso la stessa direzione, erano tutti agghindati, sembravano felici e pieni di aspettativi, alcuni canticchiavano… fra loro c’erano molti bambini.
Il suo viso da duro divenne di creta e gli s’inumidirono gli occhi.
“Non puoi farlo. Non è giusto”.
“Io non posso restare”, rispose lei come un’ovvietà.
“Si sopravvive alle separazioni”.
“Avrei sempre la tentazione di ritornate da te. E non posso permettermelo”.
“Allora Riduci soltanto me”.
“Potrei cercare le tue labbra in qualche altro umano. Non posso rischiare”.
Mimmo si afflosciò sulla porta. Si portò le mani al viso e scoppiò in violenti e imbarazzanti singhiozzi, ma non gl’importava di come appariva. Non gl’importava se avrebbe dovuto prendere di petto la situazione come un uomo avrebbe dovuto fare anziché piangere. Non gl’importava perché aveva già tentato e… non aveva più idee. E si sentiva piccolo… piccolo come una briciola di pane in un panificio.
“Dovresti venire anche tu alla festa”, disse lei.
“Non c’è nulla da festeggiare”.
“Io sono anche di là”.
“Tu non te la meriti. Hai promesso parole vuote. Ci hai riempito di false speranze. Ci hai illuso con la consapevolezza di farlo e di volerlo fare, per raggiungere i tuoi scopi. Non ti è mai importato di altro. E ora che non ti serviamo più, sei pronta a riciclarci senza il minimo indugio, spietatamente, come schiacciare un brufolo dispettoso”.
“Perché ti stupisci tanto? Non è ciò che fanno da anni e anni coloro che voi chiamate “politici”? E loro… sono come voi”.
Mimmo non rispose. Sara allora gli si accostò all’orecchio. Inspirò a pieni polmoni il suo profumo. “Selvaggio. Hai un non so che di selvaggio che mi ammalia… Anche il vostro odore crea dipendenza? Saranno i testosteroni?”.
Mimmo le afferrò il viso e la baciò con disperazione: l’ultima sua speranza. L’ultimo tentativo. “Ti prego”, implorò poi. “Liberami da questo peso. Vai via, senza Ridurci. O portami con te”.
“Non sopravvivesti”.
Sara lo baciò di nuovo e Mimmo la lasciò fare, per dieci minuti buoni, lei sembrava sperimentare la sua bocca… e quella di lui.
“Non c’è niente di paragonabile su Gliese581g”, gli alitò. “Grazie. Mi hai fatto provare anche il famoso – qui tra di voi – “bacio d’addio”. E fa male… sì, fa male come dite, anzi molto, davvero molto di più. Le vostre parole non rendono l’idea di quando brucino ora le mie labbra alla tua futura mancanza su di esse. Eppure, non baratterei per nulla nell’universo quest’attimo… nonostante il dolore che ha provocato. È strano”.
“È amore”.
“Ti amo?”.
“Se deciderai di sopportare la mia mancanza… e di andare via senza Ridurci, per il nostro bene, per me, la risposta è sì”.
Sara storse il naso. “Che peccato!”, esclamò. “Questo non sono riuscita a provarlo”.
Si staccò da Mimmo e uscì dal negozio. Si lasciò per un momento accarezzare dai raggi del sole. “È una delle più belle stelle”, sentenziò. “Siete fortunati ad averla così vicino”.
“Sara?”, la chiamò Mimmo, senza sapere esattamente cosa chiederle, come supplicarla ancora…
“Vi piacerà”, affermò invece lei. “Ridursi a molecole e ricominciare daccapo, vi piacerà. Non chiedete da sempre di poter ricominciare? Non chiedete da secoli una possibilità per salvare il mondo perché – secondo il vostro parere comune – “sta andando a rotoli”?.
Mimmo non seppe replicare nulla. Le sue gambe cedettero e si ritrovò seduto sul marciapiede, solo, distrutto e addolorato; Ma anche impotente e soprattutto, sì, soprattutto responsabile. Questo, mentre Sara raggiungeva la festeggiata nella piazza ad un isolato dal negozio di bomboniere…


7 SOLO, PICCOLI, ERRORI... 
Il capitano della nave ha appena ordinato di levare l’ancora. E' un uomo scorbutico, con la barba lunga, tipo Babbo Natale, e con i capelli sparati, come Einstein dopo un esperimento non riuscito. Sun lo osserva da lontano. Un giorno sarebbe voluto diventare proprio come lui. L’autorevole capitano di una grande nave da crociera. Sì, un giorno avrei preso il suo posto. Il capitano si sposta verso il timoniere, per verificare il suo operato. Il timoniere è giovane, non come me, io lo sono di più. Ha un cappello di paglia in testa e un tatuaggio raffigurante un teschio sul braccio, come i pirati. Nonostante ciò, ha timore del suo capitano. Gli porta rispetto. Un giorno avrebbe obbedito ai miei comandi. Un marinaio, Simon, arriva correndo. “Iceberg, in vista!”, urla. “Iceberg a venti minuti di marcia. Iceberg alla nostra destra”. Il capitano afferra un cannocchiale e guarda l’orizzonte. La sua faccia sbianca.

“Sentito?”, strilla al timoniere. “Vira a destra!”.
Il timoniere ha davanti a sé due timoni. Dopo una rapida occhiata, si getta sul più vicino e vira a sinistra, perché nelle barche a vela devi girare il timone dalla parte opposta a quella in cui vorresti andare. Il problema è risolto. Il pericolo è stato scampato. il marinaio, Simon, esce dalla stazione di comando per confrontarsi di nuovo con la vedetta. Simon è un uomo dalla notevole esperienza. E' in marina da più di cinquant’anni ormai. Ha sempre guidato le sue amate barche a vela, perciò questa per lui è una novità. Lo è per tutti, a dire il vero. Per me lo è in assoluto. Non sono mai salito prima d’ora a bordo di una nave. Il capitano riprende ad osservare l’orizzonte e nell’attimo esatto in cui si volta preoccupato verso il timoniere, rientra Simon gridando: “Pericolo, schianto entro sette minuti!”.

Hanno sbagliato a virare. Ora si stanno dirigendo spediti verso l’iceberg. Perché questa non è una barca a vela, ma a motori, e funziona diversamente. Nelle navi a motori si vira nel verso in cui s’intende girare. E' il primo viaggio di questa nave e loro non sno stati istruiti a dovere. Non sono l’equipaggio adatto a questo viaggio. Il timoniere si precipita a correggere il tiro. Vira immediatamente dal lato opposto. E' tutto inutile, è ormai troppo tardi… impotenti vedono la nave urtare l’iceberg. Lo schianto è violento. Davvero ma davvero violento. Sun si spaventa molto, tanto che vorrebbe correre a farsi abbracciare e confortare dalla madre. Ma rimane al proprio posto, sono un uomo ormai. Il futuro capitano della nave! E non posso…


“Josh!”, mi chiamò. “Basta giocare con quei modellini! È ora di andare a cenare”.

“Sun!”, le replicai. “Voglio che mi chiami Sun, come il sole!”.

“Va bene! Va bene!”, mi rassicurò frettolosamente, mentre mi afferrava per le spalle e mi trascinava fuori dalla cabina. “Ma ora andiamo a cena. Tuo padre e i tuoi fratelli ci stanno già aspettando. Come al solito, siamo i due ritardatari”.

“Devo prima terminare la storia”.
“Dopo, Josh…”
“Mamma!”.
“Sun, sì, dopo Sun”.
Percorrevamo a passi veloci lo stretto corridoio, completamente bianco, sembrava un tubo dell’acqua. Lo immaginai riempito da quest’ultima… “Ma dopo sarà tardi!”.
“Ti permetterò di restare sveglio un po’ più a lungo, stanotte, ok?”.
Eravamo giunti nella sala ristorante. Un enorme lampadario pendeva dal soffitto. Un’orchestra suonava sopra un piccolo palchetto rialzato. C’era tantissima gente seduta ai tavoli. Mamma avvistò papà e i miei fratelli. “Andiamo”, esclamò.
“No, dopo non ci sarà tempo. Sarà tardi. Dobbiamo avvisarlo subito”.
“Avvisare chi?”, mi chiese distrattamente, mentre rifiutava un drink che gli offriva una cameriera, con un vassoio pieno di bicchieri in equilibro sulla sua mano aperta.
“Il timoniere. Sbaglierà a virare e noi affonderemo”.
Mamma si fermò all’improvviso. Mi s’inginocchiò di fronte, mi puntò un dito in faccia e tutta arrabbiata mi rimproverò, tra i denti: “Non dire mai più una cosa del genere. Quante volte ti ho detto che la parola è uno strumento potente? Che ciò che diciamo ad alta voce, può tramutarsi in realtà?”.
“Forse, comunque, ci salveremo. Non lo so, per questo devo finire la storia…”.
“Smettila!”, m’interruppe. “Questa nave è inaffondabile!”.
Mi tirò per la manica e mi sospinse verso la sedia. Ci sedemmo con la nostra famiglia e iniziammo a mangiare.
“Cosa c’è?”, chiese Alex, notando il mio broncio. Aveva nove anni, due più di me.
“Non diverrò il capitano di questa nave. Uffa, l’ho anche detto ad alta voce!”.

8 COMPLEANNO 
Il vento soffiava forte, come un bambino che cerca cocciutamente di spegnere una candelina magica. Quelle che restano sempre accese, finché non si consumano da sé.

Chissà cosa cercava invece di spegnere il vento…
Forse il sole, oscurandolo alla nostra vista, con i nuvoloni che si trascinava sempre dietro. 
O forse noi.
Del resto, molti erano stati i tifoni ad aver spento milioni di umani, nei millenni passati sino ad oggi, e numerosi altri ne sarebbero spirati nel futuro: ma noi eravamo ancora qui e forse anche domani.
Chissà quanto ci saremo consumati noi…

Il vento si è ora improvvisamente placato.
Le nuvole lo hanno diligentemente seguito, ovunque sia andato ad infuriare o ad ansimare, senza domandare.
Forse lo amano.
Forse è il loro respiro.
Il sole intanto è puntualmente riapparso, in alto, su tetti e teste: i primi costruiti da noi, per noi; le seconde da Dio per alcuni, dal Caso per altri, in ogni modo, per qualcosa o per nulla, sono state create anche queste per noi.
E gli umani, sì, sono ancora qui… forse finché sapranno sorprendersi a festeggiare il proprio compleanno dalla sua privata candela magica.

Soffio verso il sole: tanti auguri a noi!


9 TOCCO 
Non era carina, non era un genio e neppure carismatica. Eppure, aveva qualcosa… un qualcosa che mi scombussolava, in sua compagnia ma anche in sua assenza.
Non so esattamente cosa mi mancasse di lei, forse nulla di particolare, forse semplicemente la sua essenza, forse era solo una mia proiezione, forse… ma ogni volta faceva male. Saperla da qualche parte nel mio stesso mondo e rendersi conto che per assurde e banali ragioni io mi costringevo ad una quotidianità distante da lei.
Respiravamo la stessa aria e nello stesso momento, ma c’erano ore interminabili in cui dovevo convincermi a non cercarla, a lasciarla respirare lontano da me. E sapevo che potevo vivere anche se lei non esistesse, come altrettanto lei poteva fare se io non fossi mai nato o non mi avesse mai conosciuto, e forse era proprio questo che mi disturbava profondamente.
Io non volevo fosse tanto facile vivere separati, io la volevo qui… adesso… subito! La volevo finché la passione ci avrebbe indotto a pensare che soltanto insieme potevamo realmente respirare a pieni polmoni.
Un'altra cosa che non capivo, era il motivo per il quale anch’io le piacessi. In qualche modo eravamo legati. In qualche modo l’idea dell’altro ci rimbombava in testa e il nostro corpo ci chiamava incessantemente.
E quando c’incontravamo anche fisicamente… niente. Non facevamo niente. Nessuno aveva il coraggio di oltrepassare la barriera dell’immaginazione. Quell’idea magica e perfetta che avevamo creato dell’altro.
Chiacchieravamo. Almeno questo. Ma in realtà neppure di ciò che realmente ci premeva. Non domandavamo cosa c’interessasse davvero.
Ogni volta avrei voluto allungare una mano… oh, abbracciami!, avrei voluto quasi supplicarla o magari farlo da me e chi se ne fregava delle sue possibili obiezioni! No, a me invece importavano. Forse più per me che per lei, effettivamente. Prestavo più attenzione a non ferire il mio ego che non i suoi sentimenti.
Ma lei esisteva e finché sarebbe esistita io non avrei mai avuto pace. Lo so, cosa state pensando adesso: questa storia finisce con me che la uccido. Con me che la tolgo dalla faccia della terra per liberarmi finalmente dal suo pensiero fisso. Sono uno psicopatico? Hmm… io mi definirei piuttosto un tossico. Sì, un tossico e lei era la mia droga. Ormai dipendevo da lei. E sapete ciò cosa significava?
Domandate a un tossico di gettare nel water la sua indispensabile polvere bianca. Lo farebbe secondo voi?
No, piuttosto si getterebbe lui. E infondo, è ciò che fa ogni volta che l’aspira o se la inietta: si getta in essa. L’astinenza per qualcosa, qualsiasi sia questa cosa, è l'ebbrezza di smarrirsi in ciò che sai non ti farà bene ma sai anche che è l’unica cosa sulla quale la ragione non ha il potere di vincere… E a noi, sostanzialmente, la Ragione sta proprio antipatica! Per questo cerchiamo l’Amore: molti sostengono che sappia batterla. E quando ci accorgiamo che non sempre è così, allora cerchiamo il nostro alleato in qualcun altro, o qualcos’altro…
Ecco, lei era così per me. Pertanto, potevo mai eliminarla? Finché ero di lei assuefatto, mai, proprio mai. Ma lei non mi lasciava inebriarmi del tutto di quella passione. E così continuavo a languire per lei… senza far nulla. Finché un giorno, mentre guardavamo il mare infrangersi sugli scogli, da un’altura a pochi metri dalla spiaggia, mi chiese: “Sai perché non riesci a toccarmi?”.
A sorprendermi non fu la sua domanda, ma l’accusa nei miei confronti.
“Anche tu non riesci a toccarmi”.
Rise.
“Va bene”, acconsentì infine. “E sai anche che non potremo mai?”.
Questo mi ferì. Iniziai a sentire la nausea e la testa prese a girarmi pericolosamente. Mi aggrappai alla ringhiera improvvisata, costruita con quattro bastoni di legno legati tra loro con del nastro adesivo.
“Non va bene”, disse mesta. “Questo ti farà sempre soffrire. Sempre di più. Ed io non voglio, per questo ti ho portato qui. Per questo credo che sia giunto il momento”.
“Il momento per cosa?”.
“Guarda laggiù”, disse allungando un braccio in direzione della spiaggia. “Guarda quante belle e simpatiche, e probabilmente anche argute, ragazze ci sono in attesa… in attesa del loro amore. E il loro amore potresti essere tu”.
“No, non potrei. Io ho già il mio amore”, sostenni risoluto, pensando così d’esser molto romantico. Invece rise di nuovo, mentre scuoteva la testa.
“Vorresti tanto che lo fossi per davvero, è così? Ma non potrò mai esserlo se non possiamo neppure abbracciarci”.
Era questo il problema? L’avrei abbracciata allora! Ma lei si allontanò di qualche passo da me, nell’esatto istante in cui avevo finalmente racimolato il coraggio per rischiare. Scavalcò la ringhiera ed ora era lì, pericolosamente in bilico, un passo falso e… puash! Sarebbe precipitata in mare.
Non ne ero preoccupato. Non era per niente alto. Non si sarebbe fatta nulla. Nonostante ciò ero terribilmente ansioso.
“E’ arrivato il momento”, ripeté. “Ma siccome tu non vuoi convincerti che lo sia, farò io ciò che dovresti fare tu”.
Continuavo a non capire. Lei si voltò e mi guardò dritta negli occhi.
“Voglio liberarti da me”.
“Io non voglio liberarmi di te”.
“Lo so, è per questo che lo farò io”.
Allungai un braccio nel tentativo di afferrarla, era la prima volta che tentavo concretamente di toccarla, perché in passato, anche solo sfiorarla mi aveva provocato violenti capogiri, e la paura d’esser rifiutato mi aveva quasi annientato. Pertanto, non avrei mai immaginato che… che la mia mano fallisse nel tentativo. Voglio dire, non in questo modo.
“Non puoi toccarmi”, disse lei. “Non puoi toccare un’illusione. Ma laggiù ci sono tante occasioni che aspettano te. Non esiste la donna perfetta. Né tu lo sarai mai per alcuna di esse. Forse la tua passione morirà dopo un giorno. Forse ti schiaffeggerà al tuo primo tentativo. Forse soffrirai più di quanto non amerai. Ma quel piccolo momento di felicità, varrà più, molto ma molto più, di me. Di me non puoi continuare a vivere: ti annullerò”.
Incominciai a piangere.
“No, ti prego. Non sono pronto. Ti prego, non andartene. Non ancora!”.
Rise.
“Sei grande per le amiche immaginarie, ormai. Sei un uomo. Devi rischiare”.
E si gettò dall’altura. Mi protesi verso la sporgenza, e sgomento osservai che il suo corpo non s’infrangeva sull’acqua, ma svaniva sotto i miei occhi.
Svanì poco prima di toccarlo… oh, neppure il mare la poteva avere!

Non era carina, non era un genio e neppure carismatica. Eppure, aveva qualcosa… un qualcosa che mi scombussolava, in sua compagnia ma anche in sua assenza.
Era la paura di rischiare.
Ma ora mi ero disintossicato. Ora ero un umano e gli umani piangono di continuo tanto quanto ridono, o forse di più, ma possono toccare tutto, persino i propri sbagli.
No, non avevo più alcun rimpianto, perché finalmente… toccavo la vita. 



10 LA PENNA 
Perché non si legge più?

E' una domanda che, in quest'ultimo secolo, in molti si pongono; e si danno anche un mucchio di risposte differenti, tutte argomentate da causa, effetto e possibili soluzioni. Alcuni tentano anche di mettere in pratica queste ultime, ma si smarriscono nei dettagli del portare in fatti concreti l'idea, ancor prima di constatare se questa possa ottenere dei risultati soddisfacenti o se non sia invece semplicemente una colossale stupidaggine.
Però, a discutere sono bravi. Tutti sono bravi a parole. Sarà per questo che si dice che in giro ci siano più scrittori che lettori. Chi resiste al fascino dell'espressione e della comunicazione del proprio pensiero a più persone possibili, così da farlo divenire importante, reale, utile, bello, udito? Forse ci si sente poco ascoltati, esattamente come i libri si sentono poco letti? E quindi, in sostanza, ci sono molti oratori e rari ascoltatori.
Ad un'aspirante scrittore, un giorno, domandai: "Cosa leggi?".
Mi rispose: "Io NON leggo".
Ribattei:"E perché mai pensi che gli altri invece dovrebbero leggere... per di più, leggere te?"
"E' quello che fanno anche i cuochi", mi spiegò. "I cuochi cucinano per gli altri non per se stessi".
E' vero, non aveva tutti i torti ma... anche i cuochi prima o poi si nutrono o morirebbero tutti quanti di fame. Pertanto, anche gli scrittori, o gli aspiranti tali, prima o poi, per non morire di "pubblicazione", dovranno leggere, no?
C'è ancora speranza per la lettura: ogni esigenza dev'essere prima o poi soddisfatta, a meno che non s'indica lo sciopero della parola come può esserlo quello della fame. Oh, ecco! Ho capito: è già in corso lo sciopero della lettura. E' per questo che si sta morendo di televisione... di qualcos'altro ci si deve pur cibare, anche se un alimento meno salutare, che porta una serie di spiacevoli conseguenze alla mente, meglio che restare a digiuno... è per sopravvivenza.
Oh, beh, ora c'è da capire contro chi si sta scioperando... avrei anche qualche ipotesi da formulare, ma sono appena stata scoperta a rileggermi... Verrò ora sostituita con una tastiera...
Addio amici-lettori-che-

per-via-dello-sciopero-
non-leggerete-della-mia
dipartita,

La Penna





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