mercoledì 12 settembre 2012

L'umanità...


L'umanità non si merita di essere la razza predominante del pianeta Terra, ma lo è perché alle altre specie non importa e non serve per credersi speciale.



Emozioni...



Cambiare idea così progressivamente e repentinamente sui propri sentimenti e sintomo di pazzia, egoismo, insensibilità, passionalità o disperato desiderio di provarli?


martedì 11 settembre 2012

Mandami il tuo ricordo




Forse sarai un'altra illusione,
ma voglio viverti finché ti crederò amore.


Giorni che ricordi ogni anno...


Avevo dodici anni. La scuola non era ancora iniziata. In quel periodo, trascorrevo i miei pomeriggi sotto casa, a giocare per strada assieme ad altri quattro amici. C’era L. di tre anni più piccola e spesso ci raggiungeva anche la sua sorellina; c’era S. un ragazzino più basso di me che oggi mi aveva superato in altezza di almeno 15 cm; c’era G. che potrei considerare la mammina del gruppo; e, inf
ine, c’era un altro ragazzino di cui non ricordo più il nome, ma perfettamente il viso e la sua voce. Ci divertivamo con poco. Spesso litigavamo e poi ci scrivevamo lunghe lettere per fare pace.
La mia routine prevedeva un telefilm alla tv, prima di scendere in strada dagli altri. Non erano ancora le 15, quando il telefilm venne interrotto per un edizione straordinaria del tg. Mia madre stirava ed io frustata andai da lei a lamentarmi della “sospensione”, poi ritornai in cucina, dove c’era la tv, nella precedente casa dove stavamo ancora in affitto. Mi lasciai cadere sul divano e non provai neppure a seguire il tg per cercare di capire cosa fosse successo: mi sembrava un’edizione straordinaria qualunque. Poi, lo vidi… in diretta… il secondo impatto.
Lì per lì lo guardai come se stessero trasmettendo quello che era successo e già mi rendevo, a poco a poco conto, che non fosse affatto routine. Nel minuto successivo, capii che, invece, fosse ciò che stava succedendo, in quell’esatto istante, e, d’un tratto, sentii il peso drammatico e grave di quel gesto. Alzai il volume per cercare di capirne di più. Mamma finì, intanto, di stirare e mi ritrovò appollaiata sul divano, con le ginocchia piegate e il mento poggiato su di esse, con lo sguardo fisso sulla tv. Si avvicinò anche lei per informarsi dell’accaduto… e non ricordo altro. Ciò che ho provato o ci siamo detti con mamma, è come un vuoto temporale nella mia memoria. Erano le 15 e poi d’improvviso sono le 16 e mezzo ed io sono per strada assieme agli altri miei amici. Ricordo che con loro parlammo dell’accaduto.
Quel pomeriggio non c’era G., ma c’era D., dell’età di L.
D. era tutto serio e con lui ragionammo come dei piccoli adulti, o così ci pensavamo. Provai a convincerli di quanto fosse grave l’accaduto, che presto ci sarebbe potuta essere una terza guerra mondiale (ero molto melodrammatica). D. era d’accordo. Il ragazzo, di cui non ricordo il nome, sostenne che avrebbero dovuto immediatamente gettare una bomba atomica sull’Afghanistan, così da eliminare una volta per tutte ogni nemico attuale o eventuale. Con D. lo contestammo: c’erano degli innocenti lì! Non si poteva uccidere così, senza guardare in faccia nessuno. Il ragazzino disse che loro lo avevano appena fatto; e noi che quel “loro” non riguardava l’intera popolazione afghana, ma forse solo una decina di essi. Poi, ricordo che ci mettemmo a parlare delle “guerre mondiali” vissute dai nostri nonni e di come si sarebbe svolta, in caso, al giorno d’oggi; in che modo e in quale misura ci avrebbe coinvolti?
Si fece sera. Dissi che al tg non raccontavano la verità, non completa, ma soltanto una parte di essa, quella che li faceva più comodo rivelarci (ma non mi riferivo all’attentato di cui ancora sapevamo ben poco, ma in generale ai fatti di cronaca). Stavolta D. non era d’accordo con me. Diceva che dovevamo fidarci, era il tg, erano adulti che raccontavano ciò che si verificava in Italia e nel mondo, ed era ovvio che non s’inventassero nulla. Insistetti e chiesero aiuto alla madre di L. che mi rimproverò di non raccontare frottole.
La parola “attentato” fu esaminata da più vedute, non appena iniziò la scuola, tra i banchi di classe, tra gli alunni e i professori. Entrò così nel mio vocabolario; e sono passati undici anni da allora… Se penso alla mia età, mi sembrano tantissimi; in riferimento a quell’11 settembre a New York, mi sembra, invece, impossibile che siano trascorsi degli anni e non solo qualche mese... 

domenica 5 agosto 2012

E' nel suo oggi



C’è quel figlio con cinquemila euro di paghetta, facilmente il padre gli scaricherà la propria disfatta, dopo una festa dove ci si saluta con il palpeggio, è tutta un’esistenza di lungo e quieto cazzeggio.

Quando è saltato per aria so che ero appena nata, lo commemoro ogni anno, ma sa di sceneggiata, il pianto di quelle vicende tuttora incomprese, relegate ad uno Stato di omissioni e di offese.


E poi scopro te. Sogni proprio come me. Scrivi, scrivi ancora un po’. Ho bisogno di credere che esiste l’eccezione, che sono già al suo fianco…


Ha vinto lei come per tutti i mille pronostici, eppure sa più di copione con scontate e triti attrici.
È morta una ragazza e poi sette vite perdute; la cultura si è fermata, ma non pure i mercati.

Civiltà è avere vestiti firmati e carte di credito, ma il mio gatto aveva le sue fusa per reddito.
Si stanno ammazzando davanti ad uno stadio, no, non certo per un’ideale utopico e illusorio.

E poi arrivi te. Sogni ancora come me. Suona, suona ancora un po’. Ho bisogno di credere, che sarai l’eccezione, che sono già al suo fianco…


La ricerca ormai si occupa dei tanti ricercatori, dispersi per il mondo; fuori casa fanno futuri.  
Il talento viene sempre e subito riconosciuto, solo che non rientra mai nei piani degli affari.

Fra dieci anni vedremo un film in sua memoria, ma non sarà una scusante dire poi che ha fatto la storia. Ad un eroe negato dedicherei pensieri profondi, ma la gente spesso preferisce i luoghi comuni.  


Ma è nel suo oggi che vale arrabbiarsi. È nel suo oggi che voglio ancora urlare. È nel suo oggi che sdegnarsi ancora vale. Perché voglio che tu mi senta nel mio oggi.

Anche se spesso ad indignarsi ancora si viene presi solo per ingenui.
Anche se so che penserai che queste sono solo belle parole.


E poi scopro te. Sogni proprio come me. Balla, balla ancora un po’. Ho bisogno di credere che esiste l’eccezione, che sono già al tuo fianco…


Perché è nel suo oggi che il migliore deve trionfare. È nel suo oggi che il male deve abdicare. È nel suo oggi che dovrebbe essere ascoltato. È nel suo oggi che si sa non verrà mai amato.


E poi guardo te. Sogni sempre come me. Canta, canta ancora un po’… 

Piccola donna



Mani sull’asfalto
per sentire del calore.
Non riesco a riscaldarmi.
Ho troppi occhi addosso.
Il sole batte forte,
ma i suoi raggi mi attraversano.

Non chiudere gli occhi,
piccola donna.
Non chiudere gli occhi,
guarda il cielo
è ancora infinito,
come pure le tue prospettive.

Hai ancora fiato per ricominciare,
mi chiedo solo perché
farlo ancora.

Ho bisogno di un motivo.
Costruisco i miei obiettivi
e temo i traguardi.
Ho bisogno di una meta
da raggiungere
per camminare,
per continuare a camminare.
Se mi fermo morirò.

Non chiudere gli occhi,
piccola donna.
Non chiudere gli occhi,
muovi un passo,
c’è ancora strada,
come pure le tue occasioni.

Abbracciami, ragazzo biondo,
dimmi che sono ancora in tempo.
Fammi piangere d’amore.
Entra in me come se fosse  
per te la prima volta
e se domani andrai via
non rimpiangerò.

Non pregherò.
Vorrei crederti,
ma l’umanità
non si è inventata bene
e immaginarti non basta più.

Non chiudere gli occhi,
piccola donna.
Non chiudere gli occhi,
ama un altro po’,
c’è ancora forza,
come pure i tuoi desideri.

Distesa ad occhi chiusi.
Non riaprirli,
piccola donna,
il sogno ti avrà comunque.


domenica 1 aprile 2012

Siamo polvere sulla loro scrivania



Sono stanca.
Stanca di tutti.
Non ho più neppure il nerbo di arrabbiarmi.
“È così”, mi dice la Rassegnazione
ed io chiudo gli occhi e dormo.
Dormo.
E sogno.
E sono stanca.
Stanca anche dei sogni.
Abituati alle ipocrisie.
Assuefatti degli opportunismi.
Non si vive di verità
qui vince chi recita meglio,
chi asseconda di più il capo di turno;
ed io chiudo gli occhi e dormo.
Dormo.
E piango.
E sono stanca.
Stanca delle lacrime.
Non ci voglio stare ai vostri giochi,
voglio sapere che mai vi cederò.
Perché è con l’omologazione che si fallisce,
non il contrario.
È con l’omologazione che fallisci,
non il contrario.
Sono stanca.
Stanca di scrivere.
Per chi cerco di dir la mia e la loro,
se neppure loro son interessati a sé?
“È così”, pensiamo ormai in coro
e chiudi gli occhi e dormi.
Dormi.
E basta.
Tanto le proteste a che servono?
E sorprendersi è da ingenui.
Non si stava meglio prima di adesso,
solo che adesso non esiste.
Non esisto in questo adesso
che non vive di me;
e chiudo gli occhi e dormo.
Dormo.
E sono sola.
E sono stanca di star sola
ma non so più avvicinarti.
Sono in un sistema di rapporti
che non si rifà al prima
ma neppure al dopo
e non è adesso
e non ci sono
con nessuno;
e chiudo gli occhi e dormo.
Dormo.
E penso.
Sono stanca.
Stanca di pensare.
Se smettessi di pensare sarebbe più facile,
lo dicono ormai tutti.
Sarei come tanti.
Sarei forse da qualche parte
e non da sola e senza un euro.
Sarei felice e con poche idee,
vivrei,
vivrei,
vivrei
in questo adesso che appartiene a tre capi
e alla loro innumerevole schiera di omologati
che pensano di star vivendo
e di non esser così morosi;
ma omologazione è fallimento.
Omologazione all’idea dei tre capi
che hanno di te,
per permetterti di vivere…
Chi sono costoro?
Chi li ha messi lì?
Quanto conta stare lì?
Siamo la polvere della loro scrivania;
e chiudo gli occhi e dormo.
Dormo.
E vivo. 

Amici?



Amici:
chi ne ha mai visti?
Nei film parecchi,
ancor di più nei libri.
C’è chi mi sta accanto che ne ha,
ne ha avuti anche quell’altro ragazzo.
E poi c’è lei
che dice di amar la sua migliore amica.
Amica:
da che ho memoria l’ho sempre cercata.
Prima con le lettere,
poi e-mail,
poi Facebook;
con i contatti umani avevo già perso.
Amici:
dicono che esistano.
Perché i miei son sempre di passaggio?
Vanno a periodi di vita
e mai stanno in quello peggiore.
Neppure lo sanno, a dire il vero.
Ed io di loro cosa so?
So che mi sento sola
e che mi sto abituando
e che è qui che dovrebbe arrivare.
Sì, dovresti arrivare
a farmi cambiare idea.
Ma, Amico,
ieri ho incontrato Babbo Natale,
e non ancora te… 

Fai "ah!"...



Apri la bocca,
mostrami la lingua,
dì “ah”…
Ecco,
stai fermo così,
che passa una mosca,
ingoiala
e fai ancora “ah”,
mentre la mosca sale al cervello
e stermina la tua anima.
Ora puoi chiudere la bocca.
La gola è a posto
e ora anche la voce
potrà andare in vacanza.
No, ma quale esilio?
È un riposo,
un pensionamento.
Anticipato?
No, ma no!
Hai già riflettuto
e esternato fin troppo.
Fai vedere la lingua…
Ecco,
non puoi più!
Non c’è più…
Ora sei guarito.
Ora, eccoti il lavoro,
lo stipendio
e il mio prodotto.
Ringraziami… bravo!
Ben fatto.
Chi è il prossimo? 

mercoledì 8 febbraio 2012

Booktrailer fatti in casa


Oltre al mio,
assieme a Debora De Angelis
e con la partecipazione di Concetta Cassarino,
ci siamo cimentate nella realizzazione di booktrailer fai-da-te.
Finora gli scrittori – tutti esordienti – che hanno accettato di “fidarsi” della nostra, reale o presunta, creatività, sono stati in tre:
- Roberto Turrinunti autore di “ESTANISLAO KOWAL: Argentina 1976-1983: il dramma di un desaparecidos romagnolo”;
- Barbara Ghinelli autrice di “DESTINY ISLAND: un piccolo paradiso di illusioni e misteri”;
- Alessio Carcaiso autore di “Remo e Romolo… gli altri”.

Di seguito i video.






martedì 7 febbraio 2012

TRADITA: violenza sulle donne...


Inauguro il blog parlando di un argomento serio che recentemente ha sollevato le critiche, le denunce e l’indignazione di molte donne e non solo… Mi riferisco alla sentenza della Suprema Corte di Cassazione che “ha abolito l’obbligatorietà del carcere come misura cautelare estesa anche all'ipotesi del reato di violenza sessuale di gruppo”, proponendo, in conclusione, “misure alternative”…

Tempo fa, avevo scritto un racconto sullo stesso tema… e che oggi voglio riproporre qui di seguito.


Tradita
Era un pomeriggio di mezza estate. Ero di buon umore. Indossavo pantaloncini corti di jeans, una maglia larga color lampone e degli occhiali da sole, quelli non mancavano mai. Non per proteggermi ma - e non so, per quale ridicola convinzione lo credessi - per apparire sfacciata.
Avevo quattordici anni compiuti nel mese di aprile. Per esattezza, il 25 aprile, la Liberazione. Un giorno davvero ironico, per me, oggi.
Dovevo incontrare delle amiche per un gelato nel bar della piazza, a due isolati dalla mia abitazione. Rifiutai di farmi accompagnare in auto da papà: sarebbe stato imbarazzante. Soprattutto perché avrebbe dovuto raggiungerci pure Tommy con i suoi amici. Tommy aveva cinque anni in più di me ed io volevo apparirgli bella, sicura e alla sua altezza.
Per arrivare in centro dovevo attraversare un sottopassaggio. Erano le tre del pomeriggio e non c’era nessuno in giro: il caldo era quasi asfissiante. Camminavo alla svelta, cuffie alle orecchie, musica a tutto volume, canticchiando allegramente: è per questo, che non lo udii avvicinare.
Mi ritrovai schiacciata contro il muro, con una mano che mi tappava la bocca, l’altra che minacciava con un coltellino il mio collo, le sue gambe che premevano e bloccavano le mie.
“Non urlare”, mi minacciò.
La mia mente faticava ancora a recepire il reale pericolo, ciò che volesse quell’individuo, sulla quarantina, rasato, barba appena fatta, profumo intenso, ancora in giacca e cravatta, come appena uscito dal suo ufficio…
La sua mano s’introdusse tra le mie gambe. La mia forza rispetto alla sua era paragonabile a quella di un criceto tra le zambe di un gatto: ogni movimento m’incatenava di più.
“Non ti muovere”, m’intimò. “O ti taglio la gola”.
Se non fosse stato per quei telefilm adolescenziali, cui non perdevo un episodio, non avrei ancora fantasticato sulla mia prima volta: ma l’avevo immaginata, tanto ormai d’essermi creata delle aspettative: il romantico rimase astratto in me.
Ero già senza i pantaloncini corti di jeans. Ero già senza le culottes nere. Ero a un tratto senza la mia verginità.
Con crescente raccapriccio capii che le mie suppliche e lacrime lo eccitassero di più: così mi zittii del tutto. Completamente impotente e sommersa dal suo disgusto, dal suo alito che mi bagnava l’orecchio, dal suo petto che si gonfiava contro il mio, dalla sua mano che stringeva il mio piccolo seno... E quando pensai di aver raggiunto il massimo dello sconforto, la naturale e crudele reazione della mia giovane età, mi riempì di vergogna.
Iniziò a bagnarsi… a provare piacere… per un viscido! Per un vigliacco! Per un assassino d’innocenza! Come potevo? Io, io ero disgustata, ma il mio corpo… non reagiva più seguendo ciò che io provavo, mi aveva rubato anche quello… Tradita, tradita persino dal mio corpo!
Volevo ora che quel coltellino, mi recidesse di netto la gola…

Era un pomeriggio di mezza estate, come oggi, a quindici anni di distanza.
Dopo undici lunghi anni di cause vinte in tribunale, che sembravano sempre non bastare; dopo undici lunghi anni d’interrogatori e umiliazioni, perché in qualche modo io mi sentivo colpevole, mi facevano sentire colpevole; dopo undici lunghi anni di dettagli, perché erano i dettagli a interessargli, dettagli che mi facevano rivivere l’accaduto, stuprata ogni singola volta dai ricordi; dopo undici lunghi anni, finalmente, la sentenza definitiva: diciotto anni di reclusione.
E sapete qual’era la cosa peggiore?
Al di là della giustizia. Al di là degli incubi. Al di là di lui... Era essere stata messa in discussione. Come se io avessi provato e provassi piacere nel farmi etichettare: la "ragazzina violentata". Dio, quant'è stato difficile sorreggere gli sguardi dei miei compaesani! Le madri delle mie amiche iniziarono a metterle in guardia, non dai pericoli che avrebbero incontrato per strada, o comunque non solo da quelli, ma da me. Sì, le mettevano in guardia da me. Come se fossi stata io ad andarmela a cercare. Certo, io ero troppo carina. Ero irresistibile ed un uomo... beh, è pur sempre un uomo.Un uomo che si è comportato da mostro, sì certo, questo lo riconoscevano e provavano anche compassione per me, ma restava il fatto che io non ero più una ragazzina innocente, e ciò era un rischio per le proprie figlie. Un rischio alla loro innocenza. Come se io potessi contaminarle. Come non fossi più una quattordicenne. Come se non fossi più buona... io ero macchiata.
E i ragazzi... i ragazzi a scuola m'indicavano. Perché avevo provato ciò che ancora loro non conoscevano e, in qualche modo, gli intimidivo. E cosa fanno i ragazzini di fronte a qualcosa che ignorano e che li rende insicuri? Lo deridono. Sì, mi deridevano scrivendo sui muri frasi che... frasi che mi facevano capire perché si temeva di denunciare ad alta voce il soggetto che ha abusato... di qualunque cosa abbia questo abusato. No, pensandoci, non solo i ragazzini si comportano in tal modo. Tommy era uno di questi. Lo stesso Tommy che prima mi vedeva come una bambina, e aveva ragione io ero una bambina, mentre dopo... dopo chi ero? Ero qualcuno da consolare, anche se non sapeva come, e siccome non sapeva come fare, allora, ero qualcuno da evitare...
Ma sono cresciuta con una madre che ha continuato a ripetermi che tutto questo mi avrebbe reso più forte. Sì, io avrei imparato a camminare a testa alta di fronte a qualsiasi stupida provocazione e sarei cresciuta comprendendo la differenza di un vero sorriso e di uno falso: ciò che divide la comprensione dall'ipocrisia. E sono cresciuta, sì, con questa convinzione... mentre mio padre, nonostante cercasse di coccolarmi e proteggermi come prima, come non aveva saputo fare quel giorno, mi guardava come se fossi un'altra persona. Io non ero più la bambina che conosceva, ero diventata un'altra figlia, e questo era ciò che invece terrorizzava lui. E non sapeva rapportarsi a questa nuova figlia... e così, impercettibilmente, giorno dopo giorno, silenzio dopo silenzio, si allontanò da me.Anche se è stato sempre presente nel percorso della mia vita: era solo vicino a me, non insieme a me. Tra noi si era spezzato qualcosa.

Era un pomeriggio di mezza estate, anche quando incontrai il prete della mia parrocchia. Brizzolato, dalle ciglia folti e le mani enormi, come quelle di Morandi. Quando ti appoggiava una mano sulla spalla, ti sentivi sprofondare in essa, come in un abbraccio. Ero seguita da anni da psicologi e assistenti sociali. Erano attenti alle mie reazioni, alla mia salute mentale, alla mia depressione. Volevano che io puntassi il dito contro il mio violentatore, senza vendetta, e che ritrovassi la fiducia nell'amore, senza dimenticare l'accaduto. Era un filo talmente sottile, che mi ritrovavo sempre troppo concentrata a non farlo spezzare, che mantenermi in equilibrio su di esso: così, ripetutamente, scivolavo dall’una o dall'altra parte.
Il prete della mia parrocchia, disse: "Sono trascorsi quindici anni. Fra un anno ne compirai trenta. Non sei più una ragazzina. Sei una donna. Sei più saggia. Sei libera, perché lui sta finalmente pagando per ciò che ti ha fatto".
Annuii mentre mi spostavo lentamente da lui: era un istinto acquisito, la vicinanza mi metteva a disagio. Eravamo seduti l'uno accanto all'altro, in una panca, di fronte all'altare minore. Non entravo in Chiesa dalla domenica precedente di quel giorno fatidico... Non so cosa mi avesse spinto a rompere quella sorta di esilio. Forse per comprendere se mi sentissi realmente libera, perché se lo ero, non era confortante. “Libertà è sentirsi privi di catene”, avevo letto da qualche parte. Bene, io non avvertivo catene, ma percepivo il vuoto intorno. Libertà era il nulla?
"Ora che hai ottenuto giustizia e che è passato molto tempo: te la senti, di perdonarlo?", mi domandò il prete.
Non era solamente la rabbia di quell'intrusione che mi aveva fatto provare odio per lui, ma era stato soprattutto il cambiamento irreversibile che quell'atto aveva portato alla mia esistenza... Lui aveva interferito nel mio futuro. Lui aveva mutato ciò che ero e mi aveva trasformato in qualcosa che non riconoscevo: un essere che provava a sopravvivere e non a vivere. Sollevai lo sguardo sull'altare, su quel Gesù crocifisso, e sorrisi.
"Io perdono il mio corpo che non ha seguito la mia anima… perdono me stessa, lui, beh, lui che si faccia perdonare da Dio, quando lo incontrerà. Perché se io non posso giudicare al Suo posto, non posso neppure perdonare in Sue veci…".

È un pomeriggio di mezza estate come quel ieri, a quindici anni di distanza. Mi manca l’ultimo esame per la specialista in lingue. Ho appena abbandonato la fermata del bus per recarmi in facoltà. Ho il mio esame da superare, che vorrei superare… ma eccolo lì, appoggiato a un palo, una mano dentro la tasca, la sigaretta in bocca, barba incolta, molto più robusto di quanto ricordassi: quattro anni dopo di carcere, solamente quattro anni dopo, e sembravano avergli giovato.
Ed io sono più sensuale adesso, io sono donna adesso, dovrebbe desiderarmi di più adesso, penso, temo, affilo le unghie, ma non è così: a lui piacciono bambine. A lui piacciono indifese. A lui piace sottomettere, sentirsi il completo padrone della situazione. A lui piace la paura dell’ingenuità.
Lo sapevo bene. Lo avevo avvertito diverse volte durante le cause in tribunale. Uno di fronte all'altro. Guardarlo negli occhi, accusarlo e poi sentirmi ribattere che fossi solamente una bambina, che ingrandiva l'accaduto, che avevo una visione distorta di quel giorno, perché per l'appunto ero una bambina... il suo avvocato disse anche che ero stata io a provocarlo. Sì, ero stata io ad iniziare, aveva persino osato sostenere. La sua colpa era stata quella di non essere stato in grado di non cedere alle mie avance. Ed io lo avevo assecondato - affermarono i suoi avvocati - lo avevo assecondato perché non avevo urlato. Menomale che i segni sul mio collo erano la prova delle sue minacce... altrimenti, sì, avrebbero messo in discussione persino la presunta paura alla mia vita. Avrebbero messo in discussione la mia reazione: anormale, per loro, per la difesa.

Mi stava aspettando. Ma questa volta - penso - siamo in una strada trafficata. Questa volta - m'illudo - sono io in vantaggio. Butta la cicca e mi viene incontro. Rimango paralizzata per una frazione di secondo: la mia mente si è come svuotata. Cosa vorrà dirmi? Non ho voglia di trovarmi faccia a faccia con lui. Perché è venuto a cercami? Come fa ad essere qui, davanti a me? Come mi comporto? Sta solo camminando verso di me e...
E infilo la mano in tasca, afferro il cellulare, compongo il 113 mentre, mentre mi volto, quasi indifferente, e mi affretto ad allontanare. Il mio sguardo scatta in fretta una panoramica: un bar, a venti metri da me…
Corro.
M’insegue.
Lui è più veloce.
Urlo.
Le auto ci sfrecciano accanto.
Nessuno si affaccia delle case adiacenti.
I passanti sembrano spariti per magia.
Mi agguanta. Il telefonino mi cade dalle mani, proprio mentre rispondevano…
Mi stringe la gola con un braccio e, non perde tempo, mi trafigge le reni con un coltello. Mi sussurra all’orecchio, il suo alito che lo bagna ancora, con orribile freddezza: “Buona condotta: sono stato un bravo carcerato. E tu, una cattiva ragazza: non si denuncia, rovinandogli la vita, chi non sei certa di non rivedere mai più”.
M’infligge sette coltellate, in pochissimi secondi, mentre qualcuno finalmente si accorge di noi, ma è tardi.
Lo rincorre.
Lo rincorrono in molti.
Sale in un’auto fermatasi proprio lì: un complice?
Lo perdono.
C’è chi chiama i carabinieri.
Chi i soccorsi.
E infine ci sono io… tradita, stavolta, da una “buona condotta”.