2 APPLAUSI
3 TRADITA
4 LA FELICITÀ E' UN ISTANTE... PRIMA DELLA FINE
5 PER LA VIA
6 PER UN BACIO
7 SOLO, PICCOLI, ERRORI...
8 COMPLEANNO
9 TOCCO
10 LA PENNA
1 NEVE
CHE SI POSERÀ
Cadeva
la neve.
Bianca
e soffice si scioglieva sotto i miei piedi. Si espandeva in una pozzanghera di
acqua fredda sotto i miei piedi.
Sì,
sotto i miei piedi c’era acqua fredda.
Sotto
i miei piedi c’era anche il cemento della strada.
Sotto
i miei piedi c’era anche qualcosa che gli umani non sanno vedere con i loro
semplici occhi.
Cadeva
la neve ed io non riuscivo ad afferrarla.
Silenziosa
precipitava dal cielo. Precipitava per finire sotto i miei piedi.
Io
la vedevo sotto i miei piedi. Era lì, che diventava acqua fredda… dopo esser
precipitata dal cielo. Chissà se lei sapeva cosa ci fosse in cielo in realtà.
Chissà se sapeva perché la gente lo indicava come il contenitore del paradiso.
Cadeva
la neve ed io avrei voluto piangere per non saperla più toccare.
Ma
non producevano lacrime i miei occhi. Non c’erano lacrime che precipitassero
insieme alla neve sotto i miei piedi. Che si confondessero con l’acqua fredda
formatasi sotto i miei piedi.
I
miei piedi… eppure lì vedevo, erano ancora lì.
Io
ero ancora qui.
Cadeva
la neve e si posava su ogni cosa.
Si
posava sulle grondaie delle case. Si posava sugli ombrelli aperti della gente
che passeggiava per la via. Si posava sulla carrozzeria delle automobili. Si
posava sui lampioni accesi. Si posava sull’asfalto della strada, persino dov’io
stavo in piedi.
Stavo
in piedi sull’asfalto della strada al centro di essa.
“Aiuto!
Chiamate un’ambulanza! Presto! Presto!”, era un uomo ad urlare.
Era
appena stato l’artefice di un incidente d’auto con un motorino. Il motorino era
finito sotto la sua automobile sulla quale ora si posava la neve. Si posava
anche su di lui, mentre correva da una parte all’altra in cerca di soccorso.
Molta gente fiancheggiava il punto dell’impatto. Molta gente cercava di
aiutarlo. Su tutti loro la neve si posava.
Anch’io
mi avvicinai.
Cadeva
la neve anche sopra una pozza oleosa e su un’altra di colore rosso: entrambe si
espandevano da sotto il motorino. Mi accorsi che la pozza era cambiata anche
sotto i miei piedi.
Sotto
i miei piedi non c’era più acqua fredda… ma olio e sangue.
Il
suono dell’ambulanza infranse il silenzio magico creato dal precipitare della
neve. Ma ormai era tardi. Lo si vedeva negli occhi della gente. Lo si vedeva
negli occhi disperati e colpevoli dell’uomo. Io lo sapevo bene quanto i loro
occhi avessero ragione.
Ma
quell’uomo non avrebbe dovuto sentirsi colpevole. Poverino, che cosa avrebbe
potuto fare? Non lo aveva visto arrivare. Il motorino gli era finito sotto le
ruote così velocemente che anche prevedendolo qualche attimo prima, non avrebbe
fatto in tempo a frenare su quel freddo e scivoloso asfalto. Sperai che la neve
ricoprisse i suoi sensi di colpa.
Arrivarono
anche i carabinieri per i loro consueti rilevamenti. Anche sui loro berretti la
neve trovava alloggio e sembrava starci piuttosto comoda. Pochi istanti e
furono lì pure i pompieri. Non c’era fuoco da spegnere, ma soltanto neve per
loro, persino sulle loro pompe. Non c’era nessuno da salvare, ma soltanto un
motorino per loro, da tirare da sotto l’automobile del signore che ora piangeva
per quell’incidente infausto. Lo invidiai. Lui sapeva piangere ancora.
Cadeva
la neve su ogni cosa, tranne che su di me.
Mi
passava attraverso. Non la sentivo sotto i miei piedi. Non sentivo l’acqua
fredda sotto i miei piedi né l’asfalto scivoloso. E non sentivo l’olio né il
sangue sotto i miei piedi.
Non
sentivo freddo, né caldo.
Non
sentivo nulla, eppure avrei voluto piangere. Giusto per fare qualcosa. Ma non
potevo più ormai.
Vedevo
ogni cosa che mi circondasse, ma non potevo afferrarla. Era una sensazione
davvero spiacevole, assomigliava al senso d’impotenza.
Vedevo
la neve cadere ancora come vedevo il mio corpo che veniva riposto ora su di una
barella. Il mio volto che veniva nascosto alla vista dei presenti. Chissà se la
gente ci credeva davvero che il nostro corpo fosse solo un contenitore. Perché
io ero ancora lì. Non potevo fare nulla senza il mio corpo, ma ero ancora lì.
Perché
ero ancora lì?
L’ambulanza
si portò via il mio corpo e per un attimo temetti che fossi costretta a
seguirlo. Che una forza invisibile mi avrebbe sollevata da terra e trascinata
con esso dovunque andasse. Invece rimasi, lì, ferma, con la neve che mi
attraversava e si depositava sotto i miei piedi che non l’avvertivano. E
adesso?
“E
adesso, vieni con me”, mi sentii dire.
Mi
voltai e alla mia destra c’era una figura un po’ trasparente, non ben definita,
alta poco più di me, e sembrava porgermi una mano fatta di vapore.
“Seguimi”,
disse ma non vidi la sua bocca muoversi.
Si
voltò e prese a camminare lontano da me. Presi a seguirla soltanto perché non avevo
nient’altro da fare e muovermi era l’unica cosa che mi riuscisse. Anche se
osservando i miei piedi non riuscivo a comprendere come si muovessero: non
pestavano l’asfalto né si libravano nell’aria. Era una specie di via di mezzo.
“Dove
andiamo?”, domandai.
“A
sceglierti un corpo”. Non la capii e lei mi rispose ancor prima che formulassi
la domanda a voce. “Guardati intorno e scegli una donna. Puoi prenderti tutto
il tempo che vuoi, in realtà tu sei senza tempo adesso. Ma se lo consideriamo
dal punto di vista umano, puoi startene in questa dimensione e andare in giro
per il mondo anche per quelli che loro considerano secoli. La donna che
sceglierai, sarà tua madre. Ma non ricorderai nulla, come la volta precedente”.
“Mi
basta sceglierla?”.
“Sì,
poi l’universo troverà il modo”.
Mi
sembrava tutto molto triste. Quando ero in vita e giocavo a pallavolo,
capitavano le volte in cui nessuno volesse scegliermi.
“Se
una donna non viene scelta in questa vita per diventare madre, verrà scelta in
un’altra, come succederà a te, probabilmente”, disse.
Poi
si fermò al centro di una via affollata e cominciò a svanire.
“Sì,
me ne vado”, mi precedette ancora. “Adesso sai cosa fare”.
“E
dove vai? Non puoi restare con me?”.
“No,
ho finalmente trovato la mia donna”.
Si
trasformò in un puntino luminoso bianco simile ad un batuffolo di neve.
Volteggiò in aria come la neve fino a posarsi delicatamente sulla mano di una
ragazza che, ignara di tutto, osservava sognatrice un lungo vestito rosso
dietro una vetrina. Si sciolse nella sua mano e le penetrò dentro.
Cadeva
la neve.
Si
scioglieva sotto i miei piedi. Chissà se i batuffoli di neve erano tanti come
me in cerca di una madre.
“Vuoi
sentire ancora la neve sciogliersi su di te?”, mi domandò una voce alle mie
spalle. Era di un’altra figura luminescente. “Allora cerca. Io la mia l’ho
appena trovata”.
E
si tramutò in una goccia d’acqua che precipitò da un balcone dove una signora,
parecchio avanti con l’età, vi si era riparata dalla neve.
Cadeva
la neve su ogni cosa, tranne che su di me.
Ma
presto sarei tornata ad avvertirla di nuovo… sotto i miei piedi.
2 APPLAUSI
“Sei
un’esistenza primaria.
Sei
una porzione distinta dall’essenza di Dio e contieni una parte di Lui.
Perché
allora ignori la tua nobile origine?
Porti
un Dio dentro di te,
povero
infelice, e non ne sai nulla.
(Epitteto)”.
Sollevai
gli occhi e osservai il mio pubblico. Le loro menti sembravano concentrate su
di me, come i loro applausi sembravano un’approvazione per ciò che avevo appena
letto: ma pensavano ad altro e non credevano in ciò che acclamavano… Però
avrebbero voluto. Oh,
sì! Lo avrebbero voluto.
La
signora Costanza mi si avvicinò alle spalle e m’invitò a tornare al mio posto.
Io mi allontanai dal microfono accompagnato ancora dai loro applausi, mentre
lei ripeteva per i presenti il mio nome (se occorreva ricordargli il mio nome
dopo cinque minuti esatti, come sperare che non dimenticassero le mie seguenti
38 parole, nella stessa sequenza da me recitate?) e annunciava il prossimo.
Presi
posto in una sediolina di compensato sbiadito e di ferro appena un poco
arrugginito, accanto a chi era già stato chiamato prima di me.
“Quest’oggi”,
ripeteva intanto per l’ennesima volta la signora Costanza. “Per chi fosse
appena giunto, vi rammento che siamo tutti qui riuniti per celebrare NOI.
Perché NOI siamo importanti e dobbiamo comunicarcelo. E dobbiamo comunicarlo ai
nostri bambini”.
Rivolsi
lo sguardo verso il pubblico che l’udiva e ancora una volta faceva scrosciare
vivacemente le proprie mani fra loro. Ma, come prima, i loro visi dicevano
altro: “quant’è ingenuo tutto questo! Però è positivo…”.
Mia
madre lo aveva detto stamani: “E’ un evento positivo”:
“Positivo
in che senso?”, le avevo domandato.
“Positivo
è qualcosa che vale la pena di essere vissuto”.
“Ma
come può essere positiva una cosa che tu hai definito “noiosa”?”.
Lo
aveva esclamato poco prima. Lo avevo udito benissimo.
“No,
non sarà noioso. Dicevo per… lascia perdere quel che hai sentito. Ci sarai tu,
per questo non sarà noioso”.
“Ma
io non sono l’evento positivo di tutti… gli altri come faranno a non annoiarsi?
Come farà a essere positivo per loro?”.
“Sarà
ciò che si dirà a essere importante”.
“Se
ti annoieresti senza di me… come potrebbe essere importante?”.
“A
volte è vero, si celebra qualcosa in cui non si crede, ma ne vale sempre la
pena”.
“Perché?”.
“Perché
è sempre meglio che celebrare il male”, aveva infine ribattuto.
“E
ora, accogliamo con un applauso Patrizio Esmeraldi”, esclamò la signora
Costanza e nuovamente le mani furono battute fragorosamente tra loro.
Mi
sorpresi a fare altrettanto, in un gesto così automatico, che mi ricordava
Frodo, ne “Il signore degli anelli”, mentre cerca di raggiungere il Monte Fato
e combatte contro l’impulso d’infilarsi l’anello al dito… che guida la sua mano
verso di esso.
Patrizio
raggiunse il pulpito, era più alto di me e anche della signora Costanza, e per
questo perse qualche secondo a posizionare il microfono all’altezza a lui
conveniente. Poi lesse la frase a lui assegnata. Non eravamo stati noi a
sceglierle, ma ero stato fortunato: io adoravo la mia.
“Nei
limiti delle nostre forze, dovremo aspirare all’immortalità,
e
fare tutto il possibile per vivere secondo ciò che di più elevato alberga in
noi;
sebbene
le nostre forze siano piccole per quantità, potenza e valore, esse sono di gran
lunga superiori a tutto il resto (Aristotele)”.
Balbettò
e inciampò goffamente a ogni parola su tre. Poi sgattaiolò via, quasi scappasse
da quelle mani che battevano ora per lui.
Aveva
ragione a scappare: battevano per altro… perciò faceva bene ad allontanarsi al
più presto da lì. Avrei dovuto farlo anch’io prima, ero stato fortunato a
riuscire a riconquistare la mia sediolina, non perfetta, ma estremamente reale.
Era
ora il turno di Elisa Motticini, annunciò la signora Costanza. Elisa arrivò
eretta, abbassò verso di lei il microfono, guardò il pubblico con l’aria di chi
sa quel che fa e lo fa con orgoglio, e infine lesse con voce squillante e fiera
la sua parte, ma capii subito che, nonostante volesse farcelo pensare, neppure
lei credeva in ciò che recitava. Lei non temeva quelle dita e quei palmi tesi a
scontrarsi fra loro con un continuo e ripetitivo “clap, clap, clap…”. Lei amava
quel loro suono e ancor di più, amava che suonassero per lei. Anche se non
erano sue quelle parole lette, anche se non aveva neppure la minima idea di
quale fosse il loro significato.
Osservai
il pubblico: loro lo sapevano, però, il significato delle nostre parole! Lo
sapevano ma mia madre aveva applaudito me e non esse, come alcuni di loro
applaudivano Elisa e non ciò che aveva detto… e molti di loro non applaudivano
neppure noi. Chi
cavolo applaudivano?
La
signora Costanza diceva che avevamo terminato le nostre letture e l’invitava in
un altro caloroso applauso per noi tutti i partecipanti di quella “splendida”,
sostenne, serata di “condivisione”.
“NO”,
urlai alzandomi dalla sedia senza pensarci.
Tutti
gli occhi si proiettarono immediatamente su di me: molti erano stupiti altri
emettevano stupidi risolini.
La
signora Costanza mi lanciò un’occhiata di rimprovero, mentre io cercavo il viso
di mia madre, tra la folla, ma non riuscivo a scorgerla. M’intimò a ritornare
al mio posto, ma non obbedii. Corsi al centro del palco. Mi voltai verso i
presenti, la cui attenzione adesso era realmente rivolta verso di me.
Volevo
parlargli, ma non sapevo come esprimermi. Persi l’attimo, per pensarci troppo,
e la signora Costanza mi afferrò per le spalle cercando di trascinarmi via da
lì, ordinandomi indignata e perentoria di tornarmene subito al mio posto.
Il
mio posto… mio posto… mio…
“NO”,
fu l’unica cosa che seppi dire. E lo ripetei ancora e poi di nuovo e un’altra
volta…
Io,
al centro del palco, sotto gli occhi di tutti, che scioccamente ridevano di me,
continuavo imperterrito a urlare il mio “NO”.
Nessuno
riusciva ad andare oltre quel “no”, così scoppiai a piangere.
Per
me e per loro.
Per
il “noi” che non eravamo, anche se in teoria lo stavamo festeggiando.
Ero
dietro le quinte, in braccio a mamma. Mi aveva sgridato per benino, per non
aver obbedito alla signora Costanza, la mia insegnante. Ora però, cercava di
consolare le mie lacrime.
“Non
piangere più”, mi sussurrava tra i capelli, stringendomi a sé più forte. “Non
piangere più, perché non c’è motivo di sentirti imbarazzato. Sai cosa significa
sentirsi imbarazzati?”.
Lo
sapevo. Sapevo più cose di quanto non s’immaginassero lei e i miei insegnanti.
La tv chiacchierava di tutto e non ci domandava mai se fosse troppo presto per
parlarci di quello o di quell'altro. Dava per scontato che potessimo
comprendere, al limite, pensava, potevamo sempre domandare ai nostri genitori o
ad altri (c’è sempre qualcuno al quale domandare qualcosa che non sai): per
questo mi piaceva.
“E’
quando fai qualcosa di stupido davanti ai tuoi amici e diventi tutto rosso”,
risposi.
“Esatto.
E tu non hai fatto nulla di stupido. Perciò non piangere più”.
“Ma
io non piango per questo”.
“E
per cosa piangi?”.
“Tu
hai detto che era sempre meglio che celebrare il male”.
Ora
sapevo a cosa applaudivano tutti quanti: al vuoto, e non era positivo…
“Sì,
l’ho detto”.
“Ma
non è così… questo è il male”.
Era un pomeriggio di mezza estate, come oggi, a quindici anni di distanza.
Dopo undici lunghi anni di cause vinte in tribunale, che sembravano sempre non bastare; dopo undici lunghi anni d’interrogatori e umiliazioni, perché in qualche modo io mi sentivo colpevole, mi facevano sentire colpevole; dopo undici lunghi anni di dettagli, perché erano i dettagli a interessargli, dettagli che mi facevano rivivere l’accaduto, stuprata ogni singola volta dai ricordi; dopo undici lunghi anni, finalmente, la sentenza definitiva: diciotto anni di reclusione.
E sapete qual’era la cosa peggiore?
Era un pomeriggio di mezza estate, anche quando incontrai il prete della mia parrocchia. Brizzolato, dalle ciglia folti e le mani enormi, come quelle di Morandi. Quando ti appoggiava una mano sulla spalla, ti sentivi sprofondare in essa, come in un abbraccio. Ero seguita da anni da psicologi e assistenti sociali. Erano attenti alle mie reazioni, alla mia salute mentale, alla mia depressione. Volevano che io puntassi il dito contro il mio violentatore, senza vendetta, e che ritrovassi la fiducia nell'amore, senza dimenticare l'accaduto. Era un filo talmente sottile, che mi ritrovavo sempre troppo concentrata a non farlo spezzare, che mantenermi in equilibrio su di esso: così, ripetutamente, scivolavo dall’una o dall'altra parte.
È un pomeriggio di mezza estate come quel ieri, a quindici anni di distanza. Mi manca l’ultimo esame per la specialista in lingue. Ho appena abbandonato la fermata del bus per recarmi in facoltà. Ho il mio esame da superare, che vorrei superare… ma eccolo lì, appoggiato a un palo, una mano dentro la tasca, la sigaretta in bocca, barba incolta, molto più robusto di quanto ricordassi: quattro anni dopo di carcere, solamente quattro anni dopo, e sembravano avergli giovato.
3 TRADITA
Era
un pomeriggio di mezza estate. Ero di buon umore. Indossavo pantaloncini corti
di jeans, una maglia larga color lampone e degli occhiali da sole, quelli non
mancavano mai. Non per proteggermi ma - e non so, per quale ridicola
convinzione lo credessi - per apparire sfacciata.
Avevo
quattordici anni compiuti nel mese di aprile. Per esattezza, il 25 aprile, la
Liberazione. Un giorno davvero ironico, per me, oggi.
Dovevo
incontrare delle amiche per un gelato nel bar della piazza, a due isolati dalla
mia abitazione. Rifiutai di farmi accompagnare in auto da papà: sarebbe stato
imbarazzante. Soprattutto perché avrebbe dovuto raggiungerci pure Tommy con i
suoi amici. Tommy aveva cinque anni in più di me ed io volevo apparirgli bella,
sicura e alla sua altezza.
Per arrivare in centro dovevo attraversare un sottopassaggio. Erano le tre del pomeriggio e non c’era nessuno in giro: il caldo era quasi asfissiante. Camminavo alla svelta, cuffie alle orecchie, musica a tutto volume, canticchiando allegramente: è per questo, che non lo udii avvicinare.
Mi ritrovai schiacciata contro il muro, con una mano che mi tappava la bocca, l’altra che minacciava con un coltellino il mio collo, le sue gambe che premevano e bloccavano le mie.
Per arrivare in centro dovevo attraversare un sottopassaggio. Erano le tre del pomeriggio e non c’era nessuno in giro: il caldo era quasi asfissiante. Camminavo alla svelta, cuffie alle orecchie, musica a tutto volume, canticchiando allegramente: è per questo, che non lo udii avvicinare.
Mi ritrovai schiacciata contro il muro, con una mano che mi tappava la bocca, l’altra che minacciava con un coltellino il mio collo, le sue gambe che premevano e bloccavano le mie.
“Non
urlare”, mi minacciò.
La
mia mente faticava ancora a recepire il reale pericolo, ciò che volesse
quell’individuo, sulla quarantina, rasato, barba appena fatta, profumo intenso,
ancora in giacca e cravatta, come appena uscito dal suo ufficio…
La sua mano s’introdusse tra le mie gambe. La mia forza rispetto alla sua era paragonabile a quella di un criceto tra le zambe di un gatto: ogni movimento m’incatenava di più.
La sua mano s’introdusse tra le mie gambe. La mia forza rispetto alla sua era paragonabile a quella di un criceto tra le zambe di un gatto: ogni movimento m’incatenava di più.
“Non
ti muovere”, m’intimò. “O ti taglio la gola”.
Se
non fosse stato per quei telefilm adolescenziali, cui non perdevo un episodio,
non avrei ancora fantasticato sulla mia prima volta: ma l’avevo immaginata,
tanto ormai d’essermi creata delle aspettative: il romantico rimase astratto in
me.
Ero
già senza i pantaloncini corti di jeans. Ero già senza le culottes nere. Ero a
un tratto senza la mia verginità.
Con
crescente raccapriccio capii che le mie suppliche e lacrime lo eccitassero di
più: così mi zittii del tutto. Completamente impotente e sommersa dal suo
disgusto, dal suo alito che mi bagnava l’orecchio, dal suo petto che si
gonfiava contro il mio, dalla sua mano che stringeva il mio piccolo seno... E
quando pensai di aver raggiunto il massimo dello sconforto, la naturale e
crudele reazione della mia giovane età, mi riempì di vergogna.
Iniziò
a bagnarsi… a provare piacere… per un viscido! Per un vigliacco! Per un
assassino d’innocenza! Come potevo? Io, io ero disgustata, ma il mio corpo… non
reagiva più seguendo ciò che io provavo, mi aveva rubato anche quello… Tradita,
tradita persino dal mio corpo!
Volevo
ora che quel coltellino, mi recidesse di netto la gola…
Era un pomeriggio di mezza estate, come oggi, a quindici anni di distanza.
Dopo undici lunghi anni di cause vinte in tribunale, che sembravano sempre non bastare; dopo undici lunghi anni d’interrogatori e umiliazioni, perché in qualche modo io mi sentivo colpevole, mi facevano sentire colpevole; dopo undici lunghi anni di dettagli, perché erano i dettagli a interessargli, dettagli che mi facevano rivivere l’accaduto, stuprata ogni singola volta dai ricordi; dopo undici lunghi anni, finalmente, la sentenza definitiva: diciotto anni di reclusione.
E sapete qual’era la cosa peggiore?
Al
di là della giustizia. Al di là degli incubi. Al di là di lui... Era essere
stata messa in discussione. Come se io avessi provato e provassi piacere nel
farmi etichettare: la "ragazzina violentata". Dio, quant'è stato
difficile sorreggere gli sguardi dei miei compaesani! Le madri delle mie amiche
iniziarono a metterle in guardia, non dai pericoli che avrebbero incontrato per
strada, o comunque non solo da quelli, ma da me. Sì, le mettevano in guardia da
me. Come se fossi stata io ad andarmela a cercare. Certo, io ero troppo carina.
Ero irresistibile ed un uomo... beh, è pur sempre un uomo.Un uomo che si è
comportato da mostro, sì certo, questo lo riconoscevano e provavano anche
compassione per me, ma restava il fatto che io non ero più una ragazzina
innocente, e ciò era un rischio per le proprie figlie. Un rischio alla loro
innocenza. Come se io potessi contaminarle. Come non fossi più una
quattordicenne. Come se non fossi più buona... io ero macchiata.
E
i ragazzi... i ragazzi a scuola m'indicavano. Perché avevo provato ciò che
ancora loro non conoscevano e, in qualche modo, gli intimidivo. E cosa fanno i
ragazzini di fronte a qualcosa che ignorano e che li rende insicuri? Lo
deridono. Sì, mi deridevano scrivendo sui muri frasi che... frasi che mi
facevano capire perché si temeva di denunciare ad alta voce il soggetto che ha
abusato... di qualunque cosa abbia questo abusato. No, pensandoci, non solo i
ragazzini si comportano in tal modo. Tommy era uno di questi. Lo stesso Tommy
che prima mi vedeva come una bambina, e aveva ragione io ero una bambina,
mentre dopo... dopo chi ero? Ero qualcuno da consolare, anche se non sapeva
come, e siccome non sapeva come fare, allora, ero qualcuno da evitare...
Ma
sono cresciuta con una madre che ha continuato a ripetermi che tutto questo mi
avrebbe reso più forte. Sì, io avrei imparato a camminare a testa alta di
fronte a qualsiasi stupida provocazione e sarei cresciuta comprendendo la
differenza di un vero sorriso e di uno falso: ciò che divide la comprensione
dall'ipocrisia. E sono cresciuta, sì, con questa convinzione... mentre mio
padre, nonostante cercasse di coccolarmi e proteggermi come prima, come non
aveva saputo fare quel giorno, mi guardava come se fossi un'altra persona. Io
non ero più la bambina che conosceva, ero diventata un'altra figlia, e questo
era ciò che invece terrorizzava lui. E non sapeva rapportarsi a questa nuova
figlia... e così, impercettibilmente, giorno dopo giorno, silenzio dopo
silenzio, si allontanò da me.Anche se è stato sempre presente nel percorso
della mia vita: era solo vicino a me, non insieme a me. Tra noi si era spezzato
qualcosa.
Era un pomeriggio di mezza estate, anche quando incontrai il prete della mia parrocchia. Brizzolato, dalle ciglia folti e le mani enormi, come quelle di Morandi. Quando ti appoggiava una mano sulla spalla, ti sentivi sprofondare in essa, come in un abbraccio. Ero seguita da anni da psicologi e assistenti sociali. Erano attenti alle mie reazioni, alla mia salute mentale, alla mia depressione. Volevano che io puntassi il dito contro il mio violentatore, senza vendetta, e che ritrovassi la fiducia nell'amore, senza dimenticare l'accaduto. Era un filo talmente sottile, che mi ritrovavo sempre troppo concentrata a non farlo spezzare, che mantenermi in equilibrio su di esso: così, ripetutamente, scivolavo dall’una o dall'altra parte.
Il
prete della mia parrocchia, disse: "Sono trascorsi quindici anni. Fra un
anno ne compirai trenta. Non sei più una ragazzina. Sei una donna. Sei più
saggia. Sei libera, perché lui sta finalmente pagando per ciò che ti ha
fatto".
Annuii mentre mi spostavo lentamente da lui: era un istinto acquisito, la vicinanza mi metteva a disagio. Eravamo seduti l'uno accanto all'altro, in una panca, di fronte all'altare minore. Non entravo in Chiesa dalla domenica precedente di quel giorno fatidico... Non so cosa mi avesse spinto a rompere quella sorta di esilio. Forse per comprendere se mi sentissi realmente libera, perché se lo ero, non era confortante. “Libertà è sentirsi privi di catene”, avevo letto da qualche parte. Bene, io non avvertivo catene, ma percepivo il vuoto intorno. Libertà era il nulla?
"Ora che hai ottenuto giustizia e che è passato molto tempo: te la senti, di perdonarlo?", mi domandò il prete.
Annuii mentre mi spostavo lentamente da lui: era un istinto acquisito, la vicinanza mi metteva a disagio. Eravamo seduti l'uno accanto all'altro, in una panca, di fronte all'altare minore. Non entravo in Chiesa dalla domenica precedente di quel giorno fatidico... Non so cosa mi avesse spinto a rompere quella sorta di esilio. Forse per comprendere se mi sentissi realmente libera, perché se lo ero, non era confortante. “Libertà è sentirsi privi di catene”, avevo letto da qualche parte. Bene, io non avvertivo catene, ma percepivo il vuoto intorno. Libertà era il nulla?
"Ora che hai ottenuto giustizia e che è passato molto tempo: te la senti, di perdonarlo?", mi domandò il prete.
Non
era solamente la rabbia di quell'intrusione che mi aveva fatto provare odio per
lui, ma era stato soprattutto il cambiamento irreversibile che quell'atto aveva
portato alla mia esistenza... Lui aveva interferito nel mio futuro. Lui aveva
mutato ciò che ero e mi aveva trasformato in qualcosa che non riconoscevo: un
essere che provava a sopravvivere e non a vivere. Sollevai lo sguardo
sull'altare, su quel Gesù crocifisso, e sorrisi.
"Io perdono il mio corpo che non ha seguito la mia anima… perdono me stessa, lui, beh, lui che si faccia perdonare da Dio, quando lo incontrerà. Perché se io non posso giudicare al Suo posto, non posso neppure perdonare in Sue veci…".
"Io perdono il mio corpo che non ha seguito la mia anima… perdono me stessa, lui, beh, lui che si faccia perdonare da Dio, quando lo incontrerà. Perché se io non posso giudicare al Suo posto, non posso neppure perdonare in Sue veci…".
È un pomeriggio di mezza estate come quel ieri, a quindici anni di distanza. Mi manca l’ultimo esame per la specialista in lingue. Ho appena abbandonato la fermata del bus per recarmi in facoltà. Ho il mio esame da superare, che vorrei superare… ma eccolo lì, appoggiato a un palo, una mano dentro la tasca, la sigaretta in bocca, barba incolta, molto più robusto di quanto ricordassi: quattro anni dopo di carcere, solamente quattro anni dopo, e sembravano avergli giovato.
Ed
io sono più sensuale adesso, io sono donna adesso, dovrebbe desiderarmi di più
adesso, penso, temo, affilo le unghie, ma non è così: a lui piacciono bambine.
A lui piacciono indifese. A lui piace sottomettere, sentirsi il completo
padrone della situazione. A lui piace la paura dell’ingenuità.
Lo sapevo bene. Lo avevo avvertito diverse volte durante le cause in tribunale. Uno di fronte all'altro. Guardarlo negli occhi, accusarlo e poi sentirmi ribattere che fossi solamente una bambina, che ingrandiva l'accaduto, che avevo una visione distorta di quel giorno, perché per l'appunto ero una bambina... il suo avvocato disse anche che ero stata io a provocarlo. Sì, ero stata io ad iniziare, aveva persino osato sostenere. La sua colpa era stata quella di non essere stato in grado di non cedere alle mie avance. Ed io lo avevo assecondato - affermarono i suoi avvocati - lo avevo assecondato perché non avevo urlato. Menomale che i segni sul mio collo erano la prova delle sue minacce... altrimenti, sì, avrebbero messo in discussione persino la presunta paura alla mia vita. Avrebbero messo in discussione la mia reazione: anormale, per loro, per la difesa.
Lo sapevo bene. Lo avevo avvertito diverse volte durante le cause in tribunale. Uno di fronte all'altro. Guardarlo negli occhi, accusarlo e poi sentirmi ribattere che fossi solamente una bambina, che ingrandiva l'accaduto, che avevo una visione distorta di quel giorno, perché per l'appunto ero una bambina... il suo avvocato disse anche che ero stata io a provocarlo. Sì, ero stata io ad iniziare, aveva persino osato sostenere. La sua colpa era stata quella di non essere stato in grado di non cedere alle mie avance. Ed io lo avevo assecondato - affermarono i suoi avvocati - lo avevo assecondato perché non avevo urlato. Menomale che i segni sul mio collo erano la prova delle sue minacce... altrimenti, sì, avrebbero messo in discussione persino la presunta paura alla mia vita. Avrebbero messo in discussione la mia reazione: anormale, per loro, per la difesa.
Mi
stava aspettando. Ma questa volta - penso - siamo in una strada trafficata. Questa
volta - m'illudo - sono io in vantaggio. Butta la cicca e mi viene incontro.
Rimango paralizzata per una frazione di secondo: la mia mente si è come
svuotata. Cosa vorrà dirmi? Non ho voglia di trovarmi faccia a faccia con lui.
Perché è venuto a cercami? Come fa ad essere qui, davanti a me? Come mi
comporto? Sta solo camminando verso di me e...
E
infilo la mano in tasca, afferro il cellulare, compongo il 113 mentre, mentre
mi volto, quasi indifferente, e mi affretto ad allontanare. Il mio sguardo
scatta in fretta una panoramica: un bar, a venti metri da me…
Corro.
M’insegue.
Lui è più veloce.
M’insegue.
Lui è più veloce.
Urlo.
Le auto ci sfrecciano accanto.
Le auto ci sfrecciano accanto.
Nessuno
si affaccia delle case adiacenti.
I
passanti sembrano spariti per magia.
Mi
agguanta. Il telefonino mi cade dalle mani, proprio mentre rispondevano…
Mi stringe la gola con un braccio e, non perde tempo, mi trafigge le reni con un coltello. Mi sussurra all’orecchio, il suo alito che lo bagna ancora, con orribile freddezza: “Buona condotta: sono stato un bravo carcerato. E tu, una cattiva ragazza: non si denuncia, rovinandogli la vita, chi non sei certa di non rivedere mai più”.
Mi stringe la gola con un braccio e, non perde tempo, mi trafigge le reni con un coltello. Mi sussurra all’orecchio, il suo alito che lo bagna ancora, con orribile freddezza: “Buona condotta: sono stato un bravo carcerato. E tu, una cattiva ragazza: non si denuncia, rovinandogli la vita, chi non sei certa di non rivedere mai più”.
M’infligge
sette coltellate, in pochissimi secondi, mentre qualcuno finalmente si accorge
di noi, ma è tardi.
Lo
rincorre.
Lo
rincorrono in molti.
Sale
in un’auto fermatasi proprio lì: un complice?
Lo
perdono.
C’è
chi chiama i carabinieri.
Chi
i soccorsi.
E
infine ci sono io… tradita, stavolta, da una “buona condotta”.
4 LA FELICITÀ È UN ISTANTE…
PRIMA DELLA FINE
C’è
un unico errore innato,
ed
è quello di credere
che
noi esistiamo per essere
felici.
-
Schopenhauer -
Leo.
Sì, questo è il mio nome.
Sì, questo è il mio nome.
Leo Manto.
Sono nato nel 1802.
Sono padre di tre forti e vivaci maschietti – il sogno di ogni
uomo con eredità da lasciare, ed io ho una consistente eredità da lasciare! – e
marito della donna più bella del mio paesino, che mi ama come se fossi l’unico
umano sopravvissuto sulla Terra dopo la quasi estinzione della nostra specie.
Sono Leo Manto e sono il desiderio di molta gente; ma oggi, la
finirò…
Firmato,
Leo Manto
Sostenere
che leggere le sue ultime parole mi sconvolse, è a dir poco riduttivo. In
genere, un uomo che si uccide lascia dietro di sé lettere struggenti e
deprimenti, che non fanno che compiangere se stessi e dare la colpa a chi non
li ha compresi, ovvero tutto il cosmo. Invece lui, lascia chiaramente intendere
che fosse vissuto felice; che nel preciso istante in cui scelse di abbandonare
la vita, fosse assolutamente soddisfatto di sé e di ciò che avesse; no, molto
di più, afferma che non avrebbe potuto desiderare di meglio, eppure… Bene, io ero
qui per capire questo “eppure”.
Ero
impegnata da sette mesi ormai nella ricerca di una spiegazione plausibile. Una
spiegazione in grado di soddisfare la mia impellente e bramosa curiosità; ma
nessuna delle mie domande aveva ancora trovato una risposta quantomeno
accettabile, tra le tante: cosa poté indurre Leo Manto a suicidarsi? La troppa
perfezione della sua vita? Quanto stonava da uno a diecimila tale
interpretazione? Diecimila e uno.
La
documentazione che avevo trovato a riguardo era sfaccettata, approfondita e
ricca di dettagli pressoché inutili al mio fine ultimo. Potevo affermare con
certezza di sapere ormai praticamente ogni particolare della sua vita, che in
una parola potevo a cuor leggero definire “perfetta”. Era davvero bella come
l’aveva descritta, non aveva esagerato, anzi, era splendida. Leo Manto era stato
il maggiore azionario di una fabbrica di scarpe e, nonostante il suo gesto
potrebbe facilmente farlo supporre, non aveva mai contratto debiti, o in ogni
modo, non ne aveva in quel martedì del 29 aprile 1834, giorno in cui si tolse
la vita. No, quando decise di spararsi un colpo di pistola alla tempia, era
strapieno di soldi. Denaro pulito, s’intende, non era intricato in nessun
affare della malavita. Era pulito. Era leale. Era sereno. Era perfetto. Perché
allora rinunciare alla propria vita? Che cosa mi sfuggiva?
Ho
iniziato allora a esaminare i figli: nella sua ultima lettera faceva
riferimento all’eredità che aveva intenzione di lasciargli. Forse, erano i
figli a trovarsi nei guai? Forse era stato un gesto d’incredibile altruismo? O
forse era una messinscena? Forse erano stati i figli a ucciderlo per avere
l’eredità? Ok, ero un’amante dei gialli, in particolare del Tenente Colombo e
del Commissario Montalbano; e chi non lo era? Mi ero agevolmente e candidamente
lasciata sedurre dalle congetture: la fantasia è da sempre il più potente
eccitante che Madre Natura ha per noi inventato.
Tuttavia,
che ci fosse qualcosa di strano era evidente e non era frutto della mia fervida
immaginazione; ma sapete cos’ho scoperto? I figli di Leo Manto erano
innamoratissimi del padre e quando seppero cosa avesse fatto, si sentirono
talmente in colpa per non aver intuito niente prima, da non volere una lira di
quell’eredità. Vendettero l’azienda del padre e l’intero ricavato fu dato in
beneficienza a un orfanotrofio.
Decisi,
a questo punto, di puntare sulla moglie: la signora Maria Manto Fonte. Era figlia
di Samuele Fonte, un pastore – non di pecore, no, ma di una chiesa protestante!
– e di Annamaria Sole, morta purtroppo pochi mesi dopo la nascita della moglie
del nostro esemplare uomo dell’inchiesta, a causa di un incidente alquanto
strano. Questo poteva trattarsi del primo vero indizio che trovavo o,
perlomeno, qualcosa d’interessante da investigare.
L’indizio
mi condusse in una stia. Sì, in una stia! Lo trovate strano? Cosa non lo è di
questa vicenda? Qui, la signora Annamaria Sole, madre da pochi mesi di una sana
e bella bambina e moglie da meno di un anno, di un uomo definito da tutti come
un grande lavoratore, d’onore e buono come il latte appena munto, s’impicca al
tetto tra galli e galline. La signora Annamaria, però, prima di compiere
l’insano (in questa precisa circostante, non si può proprio non considerarlo
“insano”) gesto, con un coltellino incide su di una trave di legno il seguente
messaggio: HO REALIZZATO FINALMENTE TUTTI I MIEI SOGNI E SONO MEGLIO DI QUANTO
IMMAGINASSI; MA, OGGI, VI SALUTERO’… A. F. S.
E
questo, cosa mi protendeva a pensare? Che questa famiglia soffrisse di un
disturbo insolito: quando raggiungevano la propria gratificazione professionale
e privata, si toglievano la vita. Buffo, no?! Sono state probabilmente le
uniche persone al mondo, che avrebbero potuto tranquillamente affermare ad alta
voce di aver realizzato tutto ciò che si erano prefissati e di aver inoltre
raggiunto traguardi migliori e inaspettati rispetto al previsto e, non solo sembra
quasi che ne fossero dispiaciuti, ma addirittura stabilirono, di punto in
bianco, di non volerne possedere e respirarne un minuto di più. In pratica, dei
folli!
La
stia era del bisnonno di Annamaria, il signor Mario Carlo Sole deceduto,
fortunatamente per lui ma non per me, per morte naturale. Sfortunatamente per
me, dicevo, perché con tale notizia, le mie indagini si arenavano in quel
pollaio, in quel 1804 – data in cui Annamaria si tolse la vita – esattamente
trent’anni prima di Leo. O forse questo poteva essere un altro indizio? No,
forse era solo coincidenza… una mia suggestione… Ok, avevo bisogno di
un’illuminazione, così mi convinsi che quei trent’anni tondi tondi fossero i
portatori di un significato recondito. Inoltre, ero troppo entusiasta della mia
ricerca: dovevo sapere. Ero di giorno in giorno più impaziente e ossessionata.
Dunque,
retrocessi di trent’anni e mi ritrovai nell’anno 1774. Mi concentrai su di
esso. Cercai, cercai e cercai ma, oltre a ricordarmi che nel 1774 iniziò il
regno dello sfortunato re di Francia, Luigi XVI, non individuai altro. Il caso
vuole, che veniva anche chiamato Il Desiderato… chissà che non fosse collegato!
Risi: stavo perdendo la testa in questa vicenda! Ritornando alle nostre due
famiglie, Fonte e Sole, non c’era nulla che potesse far sospettare qualcosa di
bizzarro. Solamente, forse, la sorella di Annamaria, maggiore di ben dieci
anni, ovvero Caterina Sole prese i voti un mese dopo la morte della prima. Beh,
la chiamata di Dio le era arrivata in età avanzata e con un certo tempismo
fatalistico! Chissà se nel frattempo se l’era spassata un po’… ok, ok, la
smetto: non è bene parlare in modo così frivolo di chi non può replicare,
soprattutto se tale individuo è morto. Certo, è passato talmente tanto tempo
che, per chi ci crede, potrebbe essersi già rincarnata in una nuova esistenza. Magari,
un giorno di questi, verrà a bussare alla mia porta per rinfacciarmi ogni mia
ridicola battutina nei suoi confronti. O magari verrebbe per svelarmi il
mistero… In ogni modo, Caterina era infine deceduta serenamente nel sonno alla
veneranda età di ottant’anni: la regola del trenta con lei non si era
ripresentata.
Tuttavia
io ero testarda, lo sono sempre stata: testarda, vivace e curiosa. “Sei malata
di curiosità”, mi aveva spesso e volentieri definito mia madre e
conseguentemente aveva aggiunto, come monito, un avvertimento, un consiglio mai
ascoltato: “La troppa curiosità spinge l’uccello nella rete”. Perché io invece
puntualmente ribattevo con una frase di Samuel Jhonson: “La curiosità è una
delle caratteristiche più certe e sicure di un intelletto attivo”. Un modo per
convincere me e gli altri della mia intelligenza… qualcuno aveva detto che l’importante
fosse crederci.
Dunque,
ricapitolando, spinta da questo irrefrenabile impulso, retrocedetti ancora di
altri trent’anni. In fin dei conti, che male poteva fare scavare dentro una
verità che pareva neppure esistere? Al massimo avrei perso del tempo, ma chi
può giudicarlo davvero tempo perso? Io stavo facendo ciò che desideravo,
contava davvero qualcosa il risultato? Certo, sarebbe stato meglio raggiungerne
un qualcheduno, in ogni modo, non era male neppure il tragitto, non vi pare?
Anno
1744.
Negli
archivi della polizia di Esperia, in provincia di Frosinone, nel Lazio – la
piccola cittadina di appartenenza dei nostri sventurati ma paghi protagonisti –
compariva il suicidio di una giovane esperiana, il suo nome era Serena Ali.
Pare
che si fosse gettata in un pozzo sotto gli occhi dei suoi fratelli maggiori. Il
referto raccontava che danzava allegra per i campi, intonando una canzoncina,
finché ad un tratto, chissà per quale contorto pensiero o forse era
semplicemente il gesto incosciente di una bambina, si arrampicò sul bordo del
pozzo. Vi si mise in piedi e si voltò sorridente verso i propri fratelli che la
stavano ora raggiungendo per raccomandarle di scendere, perché era ovviamente
pericoloso stare lì in equilibrio, volevano avvertirla come mia madre con me e
la curiosità; e Serena, esattamente come me, non gli ascoltò, anzi, scoppiò
impunemente a ridere. Li guardò per un istante, con un’eccentrica luce negli
occhi (così specificava il fascicolo) e infine gli disse: “Io sono Serena,
ricordatevelo miei amati fratelli. Io sono Serena e lo sarò per sempre.
Salutatemi, mamma!”. Dopo di che, si lasciò cadere nel pozzo.
Serena
Ali si uccise all’età di dieci anni, forse – scrissero – senza rendersi
pienamente conto che precipitando nel pozzo non sarebbe sopravvissuta;
soprattutto perché lei non aveva nessun apparente motivo per dire addio alla
propria vita. Tuttavia a dieci anni, in genere, intuisci quanto può finire male
se, ad esempio, ti leghi alle rotaie di un treno, ti tagli la gola con un
coltellino, corri incontro ad una mandria di tori inferociti, ti butti in un pozzo
del quale si vede a malapena il fondo… O forse era folle, come quegli altri
delle famiglie a lei successive, di cui molto ci siamo occupati sin’ora.
Non
mi fermai qui.
Anno
1714, 1684, 1654, 1624, 1594, 1564, 1534, 1504… e via scorrendo. Non ottenni
più alcun fatto insolito. Tutti sembrano aver vissuto silenziosi, pacifici,
regolarmente, in un modo più o meno normale, naturale, prima dell’eccentrica decisione
della giovanissima Serena. Tutto partiva in qualche modo da lei? Tuttavia, Serena
Ali non aveva alcun legame di parentela con la famiglia Sole, Fonte e Manto.
Altro punto morto.
Cominciavo
a disperare. Era presumibile che non vi fosse alcuna motivazione razionale e
logica dietro i vari suicidi rivelati. Erano solamente dei fatti fini a se
stessi. La gente non si comporta mai come ci si aspetta. La gente non agisce
sempre seguendo la ragione e quando non lo fa, è difficile trovare il capo
delle proprie riflessioni che hanno condotto a quel determinato comportamento.
Si è semplicemente agito, punto. Niente di più. E la gente si toglie vita,
capita, è sempre successo, non è una novità. Non è neppure insolito. Forse
erano stati beffardi. Forse Leo Manto sapeva di Annamaria e volle dare un
retrogusto canzonatorio alle sue ultime parole? Forse si starà divertendo da
morire, lì, da dovunque mi stesse ora guardando, mentre m’impuntavo e mi
scervellavo nella vana ricerca di una possibile interpretazione di ciò che
scrisse, quando un senso non ha. Rideva, sì, verosimilmente stava ridendo da
mesi e mesi di me.
A
Esperia non ero mai stata, pertanto decisi di visitarla per benino. Esperia,
comune italiano di quasi quattro mila abitanti. È posizionato alle pendici del
Monte Cerubo. È circondato da boschi e monti. Si può trovare una via Torre, una
via Ospedale, una via Ragazzi del ’99 (un giorno gli avrei dedicato una ricerca
personale), via degli Archi, via Castello, via della Fontana, via Accorciatoia,
via Castagne, via dei Monti, via Aranci, via Rave Grossa, via Vigna, via degli
Ulivi, via Tasso, via dell’Unione… che bei nomi! Nella mia città e in quelle
adiacenti, esistevano solo vie dedicate a personaggi storici, sempre gli
stessi, tra l’altro. Comunque, questo non mi era sufficiente. Avevo bisogno di
una vera distrazione e, l’unica maniera che io conoscessi per invogliarmi a
entusiasmarmi in altro per abbandonare la mia precedente fissazione, era
concentrarmi in una nuova ricerca. Volevo sapere sempre tutto di ogni cosa:
questo mi dava felicità. Mi seppellii come mia abitudine in una biblioteca.
L’odore dei libri antichi, era inebriante, ne ero innamorata. Lo aprivo
all’incirca a metà e mi ci tuffavo con il naso. Respiravo a fondo e mi
ritrovavo con le labbra curvate all’insù, neanche se fosse pollo arrosto: il
mio piatto preferito. Ogni volta che i miei fratelli mi rompevano un giocattolo
– cosa che avveniva assai di frequente – mamma si recava al centro commerciale
più vicino dove, accanto alla salumeria, cucinavano un saporitissimo pollo
arrosto.
In
biblioteca mi dedicai alla storia di Esperia, partendo dalle sue origini,
scoprendo che riprendeva il nome designato alla penisola italiana dagli antichi
greci. Inoltre, il 26 aprile 1861, Giovanni Virginio Schiaparelli, un astronomo
nato a Savigliano, scoprì l’asteroide 69 che chiamò Hesperia; e casualità vuole,
che da allora sono passati centocinquant’anni, come per la nascita della nostra
Italia Unita. Pare ci sia davvero molto da festeggiare, ad esempio, un mucchio
di coincidenze. Io non ho mai creduto alle coincidenze, perché iniziavo proprio
adesso? Esperia era dunque il principio di ogni cosa? Ma di tutto cosa,
esattamente?
Mi
rendevo perfettamente conto, che sembrava che mi stessi vagamente arrampicando
sugli specchi, ma dovevo sapere o non avrei mai avuto pace. Io dovevo sapere.
Perfetto,
mi dissi, se non potevo più andare indietro, sarei andata… avanti.
Anno
1864. Oreste Manto si getta da un ponte all’età di ventitré anni. Era il figlio
di Daniele Angelo Manto, figlio a sua volta di Leo Manto.
Anno
1894. Mattia Gola, marito di Lucia Manto figlia di Oreste Manto, si pugnala
dopo aver rimesso a pieni titoli nel mercato la panetteria di famiglia, il più
grande sogno del nonno.
Anno
1924. Antonietta Gola Fiore, nipote di secondo grado di Mattia Gola, si taglia
le vene nella camera da letto della sua nuova casa da sposina, il giorno dopo
le nozze (fu così disastroso il marito… o forse insopportabilmente magnifico?).
Anno
1954. Stefano Fiore, fratello di Antonietta Gola Fiore, ingoia una dose
eccessiva di anfetaminici dopo aver chiesto agli amici di vivere in maniera
“triste” anche per lui.
Anno
1984. Valentina Merlo, figlia di Simona Fiore, figlia a sua volta di Stefano
Fiore, si arrampica su di un albero e da lì si lancia per aria con le braccia
aperte, gridando di poter finalmente volare, adesso… Sbatte la testa e muore
sul colpo.
Inquietante.
Questa vicenda era oltremodo inquietante. Ciò significava che avessi tre anni di
tempo per capirne la causa ed evitare così il successivo suicidio-felice? Perché
mi ero ficcata in questa situazione? Perché non mi facevo mai i fatti miei? Mia
madre me lo ripeteva continuamente…
Era
il 1999, avevo quindici anni e tanta voglia di esplorare il mondo e me stessa. Si
era appena consumato l’ennesimo litigio con mio padre, non ricordo su cosa si
fosse incentrato, non credo sia importante, si trattava delle solite
discussioni che s’infiammano tra due generazioni diverse. Avevo recuperato
dalla soffitta la valigia dei viaggi estivi, che avevamo utilizzato sinché mia
madre non restò incinta dei miei due fratellini gemelli, Alessio e Giulio.
All’inizio furono sospesi i viaggi di famiglia, perché era complicato portarsi
dietro i due mocciosi, dopo perché si era persa l’abitudine, come per tante
altre cose, come per tutti.
Trascinai
la valigia giù per le scale, rischiando un notevole numero di volte di
precipitare giù con essa. La fortuna, o forse perché non era semplicemente
arrivato il mio momento, mi permise di giungere indenne al piano della mia
cameretta. Chiusi la porta a chiave e riempii la valigia delle mie cose, fra
vestiti, riviste, diari segreti e gioielli di bigiotteria, finché si poté.
Volevo fuggire ma non avevo fatto i conti con il peso della valigia, che ora si
era praticamente triplicato; e con mamma che a braccia conserte, sentendo gli
strani rumori che avevo provocato, mi aspettava sul ciglio della porta di casa.
Io, più che scappare, volevo scoprire ciò che ci fosse al di là della nostra
cittadina. Volevo viaggiare e volevo essere indipendente ma soprattutto libera;
e mi sentivo così in gabbia in quella mia insulsa adolescenza. Mamma non me lo
permise.
Tornata
allora in camera mia, con la valigia mezza disfatta con il suo contenuto sparso
in giro per la stanza per la rabbia provata, mi venne l’idea di tentare un
altro tipo di esplorazione. Chiusi la porta a chiave e alzai al massimo il
volume della radio. Davano una canzone della Pausini, era ai massimi livelli
della sua giovane carriera. Mi distesi sul letto e allungai una mano tra le mie
gambe… La felicità della scoperta non durò a lungo, perché la volta successiva
già sapevo cosa fare e cosa avrei provato. Ed io ero avida di sapere. Volevo toccare
il mondo ma ero finita per mettere il dito tra moglie e marito.
Giuro
che fu una casualità! Non era mia intenzione ma… lo sorpresi sotto un pino,
avvinghiato ad una donna che in seguito seppi fosse il suo capo d’ufficio, della
villa comunale a trenta chilometri di distanza da dove era residente con la
moglie. Come ci sono finita? È stato il mio stesso senso. Sentivo che
nascondeva qualcosa, che non mi convinceva particolarmente la sua versione di
abbandonare la festa di compleanno, del suo primogenito di tre anni, per
incontrarsi con il suo capo e colleghi d’ufficio per un’urgente riunione di
lavoro. In fin dei conti, non aveva del tutto mentito… ed era anche vero che, siccome
nell’ultimo periodo erano stati partecipi di diversi scioperi contro certe
riforme del Governo, era plausibile che volessero incontrassi per discuterne.
Ok, io avevo appena preso la patente, esattamente da due mesi e undici giorni,
e cercavo continui escamotage per metterla in moto. Per questa ragione, lo
seguii… Raccontai tutto a mia zia, un’altra mia zia, che era la sorella del
marito che le faceva le corna, che raccontò tutto a quest’ultima e fu così che
decisero di divorziare. Mia madre mi disse: “Tu i fatti tuoi mai, non è vero?”.
Potrei stare qui a raccontarvi tantissimi altri episodi ma finirei per
annoiarvi o per portarvi fuori strada.
Siamo
qui per smascherare la verità del signor Leo Manto e di tutti quegli altri che
lo precedettero e poi susseguirono nel medesimo gesto definitivo, nonostante
fossero entusiasti e beati, semplicemente felici. Forse dovevo prestare
attenzione proprio su quest’ultimo particolare.
Digitai
su internet la parola: felicità. Tutte le definizioni che trovai su di essa, includevano
invece la parola “istante”. La felicità è un istante non una condizione
dell’essere.
Pertanto,
tutte queste persone, avevano provato una contentezza troppo intensa e per un
periodo eccessivo per poterla tollerare un solo minuto in più? Che si trattasse
di un’ipotesi assurda lo comprendevo perfettamente da me.
Mi
sono appena resa conto, di non avervi raccontato l’episodio irrisolto, che mi
ha oggi condotta sino a qui. Quando tutto ebbe inizio, era un pomeriggio di
fine settembre, l’aria era ancora calda e umida, e si profumava ancora di mare
e granita. Mi ero recata in biblioteca per un’altra ricerca che riguardava le
nuvole. Le nuvole, come già ben sapete, sono delle idrometeore costituite da
cristalli di ghiaccio o da minute particelle d’acqua o da entrambi, con la
caratteristica di poter restare perennemente sospesi nell’atmosfera. Non
toccano mai terra, chissà come dovevano sentirsi: forse come noi che non
possiamo volare, desiderano al contrario di poter camminare? Di provare il
senso della gravità che ti tiene ancorato alla Terra, che ti fa sentire sotto i
piedi il suolo e ti fa credere di esserne quasi un tutt’uno; e avvertire il
vento su di te perché stai correndo e non volando; o la sensazione di appartenere
al mondo. Noi bramiamo la libertà come loro il legame con qualcosa di
tangibile?
Le
nuvole esistono anche nell’universo, non sono una prerogativa della Terra. Si
formano anche su di altri corpi celesti o su dei satelliti. Oppure, sparse qua
e là, nello spazio interstellare, ma come agglomerati di gocce di vapore
acqueo. Le nuvole, inoltre, sono una delle meraviglie del creato più poetiche
che ogni giorno possiamo ammirare. Possono tingersi del colore del sole,
dell’arcobaleno, del nero più spaventoso o del grigio più tetro, oppure ancora
di un bel candido bianco: sembra quasi che possano provare i nostri stessi
sentimenti. Anche il nostro viso cambia colore a seconda delle nostre emozioni,
solamente che noi, a differenza loro, ce ne vergogniamo e tentiamo di
nasconderlo o di cambiarci, di renderci più sicuri di noi, più… asettici e
indifferenti.
In
ogni modo, il loro colore più diffuso e naturale, ovviamente è il bianco. Un
mistico indiano, Rajneesh Chandra Mohan Jain, o più comunemente, Osho Rajneesh,
nel suo libro “La mia via. La via delle nuvole bianche” scrisse: l'uomo libero è come
una nuvola bianca. Una nuvola bianca è un mistero; si lascia trasportare dal
vento, non resiste, non lotta, e si libra al di sopra di ogni cosa. Tutte le
dimensioni e tutte le direzioni le appartengono. Le nuvole bianche non hanno
una provenienza precisa e non hanno una meta; il loro semplice essere in questo
momento è perfezione.
È
tra le sue pagine che trovai il biglietto di Leo Manto, o meglio, una fotocopia
dell’originale. Come può esserci finito? È un altro bel mistero, che come per i
precedenti, non ho ancora scovato nessun appiglio per poterlo svelare.
Forse
dovrei rassegnarmi alla consapevolezza che non tutte le domande possono avere
una risposta. Sono da sempre stata convinta che se giungevamo a porci un
determinato quesito, ciò significava, che da qualche parte nell’universo, si
era allo stesso tempo formata una soluzione. Perché gli umani immaginano
tantissimo, ma non si discostano mai poi così tanto dalla realtà; ma ne
rimangono sempre in qualche modo appigliati. Come se temessero, che
allontanandosene un po’ di troppo, potessero smarrirne la via del ritorno, il
ritorno alla realtà; e che quindi, da quel momento in poi, rischiassero di perdere
per il resto della loro vita la propria credibilità nella società esistente
alla loro vita. L’uomo è così terrorizzato dalla “pazzia” da non rendersi conto
che da pazzi è proprio la costante paura che guida e accompagna ogni nostra
azione. Siamo così diversi da una nuvola bianca, da quella nuvola libera… siamo,
seguendo il ragionamento di Osho, così incredibilmente imperfetti.
Eppure,
i personaggi in cui ho indagato sembravano proprio delle nuvole bianche,
sembrano perfetti ma è un errore. Perché qualcosa deve essere andato storto.
Ritornai
allora ai dati già in mio possesso, rileggendoli per l’ennesima volta, come se
potesse essermi sfuggito qualcosa, un particolare fondamentale, l’illuminazione
del momento: anno 1864, 1894,1924,1954,1984… 1984. Sorrisi. Qualcosa mi era
effettivamente sfuggito, anche se non aveva nulla a che vedere con la vicenda
in questione. Il 1984 è l’anno in cui nacqui. Ho ventisette anni e fra tre ne
avrò trenta: che numero fatalista alla luce delle mie investigazioni!
Vivevo
da sola da ormai più di nove anni. Attualmente, ero in affitto in un
appartamentino al quinto piano senza ascensore, di un antico edificio in pietra
con il tetto in legno. La mia curiosità mi aveva sempre guidata distante dagli
statici programmi di studio che il Ministero dell’Istruzione realizzava per le
scuole. Lo studio non mi aveva mai spaventata, ma spesso annoiata, perché
necessitavo di continui stimoli mentali ed un libro, che a cicli alterni
ripeteva gli stessi concetti, solamente in maniera di volta in volta più
approfondita, non riusciva nell’intento. Sapevo molte cose, molte più di tutti
i miei compagni di classe messi assieme, ma erano tutte cose inutili per i fini
dei programmi scolastici. I miei insegnanti si erano spesso disperati, troppe
volte ne avevano anche discusso con i miei genitori, considerando un vero
peccato la mia intelligenza sprecata per la scarsa volontà con la quale mi
applicavo nelle loro materie. Inoltre, ero anche una ragazzina ribelle e
vivace, tante erano anche le volte in cui finii in corridoio, dietro la porta e
fuori dalla classe… La mia condotta non era mai stata costellata da buoni voti.
La stessa sorte toccò all’università: ero incuriosita da talmente tanti
argomenti differenti, che alla fine non ne scelsi nessuno e tutti. Non m’iscrissi
in nessuna facoltà, ma come potete ben vedere, non ho mai smesso di tentare di
soddisfare la mia incessante curiosità. La mia fonte della felicità.
Avevo
un curriculum piuttosto vasto: la parte dove elenco i lavoretti da me svolti,
sembra non avere fine. Ti viene persino da domandare, se una persona in una
sola vita, possa aver davvero mai provato così tante mansioni differenti; ma in
questo non sono un’eccezione: quasi tutti i curriculum vitae della mia
generazione sono costituiti da un simile elenco, anche quelli che hanno scelto
una facoltà e vi si sono laureati. Attualmente, ero una commessa di un centro
commerciale.
Frustata
aprii il cassetto della mia scrivania e tirai fuori la siringa. M’iniettai la
mia dose di cocaina giornaliera. Mi avrebbe aiutato a mettere a fuoco le cose.
Forse mi avrebbe portato alla soluzione o in ogni caso mi avrebbe fatto sentire
euforica e…
Gettai
la siringa per terra. Oh, merda! Ormai era tardi: me l’ero iniettata tutta. Già
la vista mi si stava annebbiando e i miei sensi si esaltavano più del solito….
Sarebbe bastato solo un istante prima… se solo avessi compreso un istante prima
quel “eppure”…
Tentai
di reggermi sulla sedia, mi accasciai con la testa sulla scrivania e poggiai
una mano sul mouse. Lentamente misi a fuoco lo sfondo e le icone del desktop. Aprii
Microsoft Word e digitai:
LA
FELICITA’ E’ UN ISTANTE.
LO
PERCEPISCI QUANDO TI FAI… LO SAI CHE DURA POCO MA LO RICERCHERAI FINCHE’ NON
TOCCHERA’ IL PUNTO MASSIMO E TI PORTERA’ VIA CON SE’ .
PERO’
È UN BELL’ISTANTE.
SONO
COMPIACIUTA DI AVERLO VISSUTO, COME DI AVER SVELATO IL MISTERO… LA MIA
CURIOSITÀ ORA È SODDISFATTA, E ANCHE QUESTO È FELICITÀ. ANZI, QUESTA È LA MIA
FELICITÀ. L’HO CAPITO TRE ANNI PRIMA DEL PREVISTO… FORSE CON ME SI CONCLUDERÀ
IL CICLO…
MA
SE COSI’ NON FOSSE… ATTENTI, MIEI CARI LETTORI!
POTREI
VOLARE DI FAMIGLIA IN FAMIGLIA FINO A RAGGIUNGERE VOI… MI BASTERANNO SEMPRE
MENO ANNI… E POI, ADESSO, CON LA GLOBALIZZAZIONE E TUTTO IL RESTO, POSSO
RITROVARE UN PO’ DELL’ANTICO NOME DELL’ITALIA IN OGNI PARTE DI QUESTO PICCOLO
MONDO… TONDO, TONDO…
IN
FONDO, NON HO ANCORA COMPRESO PERCHÈ SIA INIZIATO TUTTO DA ME… O CHE LEGAMI
AVESSI CON LA PRIMA DOPO DI ME, ANNAMARIA FONTE, FORSE SUCCEDE COSÌ DAL
PRINCIPIO DEI TEMPI?
OH,
QUESTO LO LASCERÒ A VOI… AVETE TRENTA, ANZI DA OGGI VENTISETTE ANNI DI TEMPO A
PARTIRE DA ADESSO, PER CAPIRE TUTTO CIO’ CHE ANCORA C’E’ DA SVELARE…
PER
PRECAUZIONE, IN OGNI MODO, SIATE SEMPRE UN PO’ SCONTENTI…
SERENA
MERLO
Camminava come tanta gente, libera dal tempo.
E se sei libera dal tempo, le cose sono due: o sei un umano speciale, al di
sopra di molti, che è riuscito finalmente a sprigionarsi dal ticchettare di un
orologio; oppure sei un umano disoccupato e non hai nulla da fare.
Mary era un’umana disoccupata e cercava camminando per strada il suo qualcosa da fare.
Era già entrata in tre negozi che cercavano commesse e in un bar che cercava invece un addetto alla cassa. Tutti le avevano sottolineato perentori che la persona che pretendeva tal lavoro dovesse portare con sé una parola magica: esperienza. Ma l’unica esperienza di Mary, che risaltava nel suo CV, erano i suoi contatti con i testi scolastici o al massimo con insegnanti e colleghi d’università, non aveva mai conversato con ordinazioni e contanti, né aveva mai cercato di persuadere qualcuno a comprare un determinato capo. E nonostante si fosse resa disponibile a conoscere qualsiasi Esperienza, nessuno era stato disposto a presentargliene qualcuna.
Così camminava a passi lenti sul marciapiede, scrutando attentamente ogni vetrina che superasse, con poche speranze ormai.
Il giorno prima ad esempio, le era stato chiesto persino di avere esperienza nel “portare a passeggio un cane”, ma anche di bambini.
“Non sei madre, non hai mai avuto fratelli più piccoli da accudire e non hai mai fatto la babysitter prima. Come posso fidarmi?”, le aveva quasi strillato la madre di un bimbo di otto anni, che per un attimo Mary aveva sperato potesse divenire il suo datore di lavoro, se pur temporaneo.
Quindi, doveva rimproverare sua madre per non aver concepito nessuno dopo di lei, perché per colpa sua non le sarebbe mai stata concessa la possibilità di fare esperienza come babysitter.
“No, non sono una madre”, le aveva risposto. “E di questo passo, non credo oserò mai diventarlo”.
Mary era un’umana disoccupata e cercava camminando per strada il suo qualcosa da fare.
Era già entrata in tre negozi che cercavano commesse e in un bar che cercava invece un addetto alla cassa. Tutti le avevano sottolineato perentori che la persona che pretendeva tal lavoro dovesse portare con sé una parola magica: esperienza. Ma l’unica esperienza di Mary, che risaltava nel suo CV, erano i suoi contatti con i testi scolastici o al massimo con insegnanti e colleghi d’università, non aveva mai conversato con ordinazioni e contanti, né aveva mai cercato di persuadere qualcuno a comprare un determinato capo. E nonostante si fosse resa disponibile a conoscere qualsiasi Esperienza, nessuno era stato disposto a presentargliene qualcuna.
Così camminava a passi lenti sul marciapiede, scrutando attentamente ogni vetrina che superasse, con poche speranze ormai.
Il giorno prima ad esempio, le era stato chiesto persino di avere esperienza nel “portare a passeggio un cane”, ma anche di bambini.
“Non sei madre, non hai mai avuto fratelli più piccoli da accudire e non hai mai fatto la babysitter prima. Come posso fidarmi?”, le aveva quasi strillato la madre di un bimbo di otto anni, che per un attimo Mary aveva sperato potesse divenire il suo datore di lavoro, se pur temporaneo.
Quindi, doveva rimproverare sua madre per non aver concepito nessuno dopo di lei, perché per colpa sua non le sarebbe mai stata concessa la possibilità di fare esperienza come babysitter.
“No, non sono una madre”, le aveva risposto. “E di questo passo, non credo oserò mai diventarlo”.
Mary si fermò davanti ad una vetrina che mostrava peluche di ogni dimensione e
tipo. Ricordò che da bambina andava letteralmente pazza per i peluche: la sua
cameretta ne era stracolma. Osservandoli, le sembrò che anche loro erano in
attesa, come lei, di un miracolo: la stanza dei bambini era oggi stracolma di
altri giocattoli, per lo più elettronici, non di loro.
Mary agì d’istinto, entrò nel negozio decisa ad acquistare l’orsacchiotto con gli occhiali, quello grande quasi quanto lei. Era bellissimo, pensò, e dopo averlo accarezzato si rese conto che avrebbe facilmente potuto smarrirsi in quel gesto. Era morbidissimo.
Non sapeva ancora come avrebbe fatto a portarselo via, ma era ormai decisa ad averlo. Non poteva lasciarlo lì da solo a deprimersi ancora.
Uscì dal negozio con un mini-peluche a forma di tartaruga che sembrava più un portachiavi. Le era costato ben 15 euro! Pensò che i peluche al giorno d’oggi venissero venduti un euro al “pelo”, immaginatevi pertanto in proporzioni quando le chiesero per l’orso gigante! Lei volle dimenticarlo e non si meravigliò più che i bambini preferissero i videogames.
Iniziava a sudare. Era ottobre ma sembrava ancora piena estate. Avvistò una panchina libera, sotto una quercia un po’ stressata dal traffico circostante, dall’altra parte della strada. Raggiunse le strisce pedonali e aspettò pazientemente che scattasse il verde per i pedoni. Attese dieci minuti per vederlo accendersi di verde e dovette affrettare i suoi passi, anzi dovette correre, non appena si trovò al centro esatto della corsia e il verde si spense a favore dell’arancio, affinché potesse vivere ancora un altro pochino… Fece appena in tempo a posare il piede sul marciapiede che il semaforo divenne rosso e i suoi capelli svolazzarono sgomenti al passaggio veloce delle auto alle sue spalle. Dieci minuti con il rosso e dieci secondi con il verde!
Quando sarò vecchia e per camminare avrò bisogno di un bastone, pensò, dovrò ricordarmi d’installargli un motore a propulsione!
Riprese a camminare per raggiungere la sua meta e si augurò che fosse ancora libera. La scorse e si accorse che lo era ancora, per fortuna!
Sospirò e le si avvicinò a grandi passi, stavolta, ormai stava per sedercisi quando sbucò al suo fianco un signore che si reggeva a stento sul proprio bastone della vecchiaia.
“Vuole…”, sedersi lei?, avrebbe voluto proporgli cortesemente, ma lui la precedette, piuttosto irritato, esclamando: “L’ho vista prima io!”. La strattonò e si sedette sulla panchina. “I giovani d’oggi non hanno più rispetto per gli anziani!”.
“Ma se le stavo per l’appunto dicendo che…”, ma s’interruppe cercando di ricordarsi che anche lei un giorno sarebbe stata come lui. Quindi il suo torno ritornò sereno e aggiunse: “C’è sempre posto per due!”.
Lui le lanciò un’occhiataccia indignata.
“Certo, per te e per il tuo ragazzo, immagino! Ed io… io sarei stato di disturbo, no? Ma ai miei tempi il padre della mia rispettabilissima e amata consorte, non ci avrebbe mai permesso d’incontrarci di nascosto e da soli, per fare chissà cosa, comportandosi con gli anziani di passaggio, nel frattempo, in maniera tanto maleducata e….”.
Mary non seppe mai cosa altro fosse, oltre a una giovane maleducata che fa chissà cosa con un ragazzo inesistente. Perché gli diede le spalle e lo abbandonò ai suoi sproloqui, che sembravano non richiedere la presenza di un interlocutore: proseguivano anche in assenza di Mary.
Il suo passo adesso era più svelto, mentre si allontanava borbottando: “Spero che il tuo bastone abbia un motore a propulsione difettoso, imbecille, ignorante, cafone d’un vecchiaccio!”. Gli aggetti che gli affibbiò furono molti di più, a dire il vero, ma io ho preferito riportarvi soltanto i più “cortesi”.
Mary agì d’istinto, entrò nel negozio decisa ad acquistare l’orsacchiotto con gli occhiali, quello grande quasi quanto lei. Era bellissimo, pensò, e dopo averlo accarezzato si rese conto che avrebbe facilmente potuto smarrirsi in quel gesto. Era morbidissimo.
Non sapeva ancora come avrebbe fatto a portarselo via, ma era ormai decisa ad averlo. Non poteva lasciarlo lì da solo a deprimersi ancora.
Uscì dal negozio con un mini-peluche a forma di tartaruga che sembrava più un portachiavi. Le era costato ben 15 euro! Pensò che i peluche al giorno d’oggi venissero venduti un euro al “pelo”, immaginatevi pertanto in proporzioni quando le chiesero per l’orso gigante! Lei volle dimenticarlo e non si meravigliò più che i bambini preferissero i videogames.
Iniziava a sudare. Era ottobre ma sembrava ancora piena estate. Avvistò una panchina libera, sotto una quercia un po’ stressata dal traffico circostante, dall’altra parte della strada. Raggiunse le strisce pedonali e aspettò pazientemente che scattasse il verde per i pedoni. Attese dieci minuti per vederlo accendersi di verde e dovette affrettare i suoi passi, anzi dovette correre, non appena si trovò al centro esatto della corsia e il verde si spense a favore dell’arancio, affinché potesse vivere ancora un altro pochino… Fece appena in tempo a posare il piede sul marciapiede che il semaforo divenne rosso e i suoi capelli svolazzarono sgomenti al passaggio veloce delle auto alle sue spalle. Dieci minuti con il rosso e dieci secondi con il verde!
Quando sarò vecchia e per camminare avrò bisogno di un bastone, pensò, dovrò ricordarmi d’installargli un motore a propulsione!
Riprese a camminare per raggiungere la sua meta e si augurò che fosse ancora libera. La scorse e si accorse che lo era ancora, per fortuna!
Sospirò e le si avvicinò a grandi passi, stavolta, ormai stava per sedercisi quando sbucò al suo fianco un signore che si reggeva a stento sul proprio bastone della vecchiaia.
“Vuole…”, sedersi lei?, avrebbe voluto proporgli cortesemente, ma lui la precedette, piuttosto irritato, esclamando: “L’ho vista prima io!”. La strattonò e si sedette sulla panchina. “I giovani d’oggi non hanno più rispetto per gli anziani!”.
“Ma se le stavo per l’appunto dicendo che…”, ma s’interruppe cercando di ricordarsi che anche lei un giorno sarebbe stata come lui. Quindi il suo torno ritornò sereno e aggiunse: “C’è sempre posto per due!”.
Lui le lanciò un’occhiataccia indignata.
“Certo, per te e per il tuo ragazzo, immagino! Ed io… io sarei stato di disturbo, no? Ma ai miei tempi il padre della mia rispettabilissima e amata consorte, non ci avrebbe mai permesso d’incontrarci di nascosto e da soli, per fare chissà cosa, comportandosi con gli anziani di passaggio, nel frattempo, in maniera tanto maleducata e….”.
Mary non seppe mai cosa altro fosse, oltre a una giovane maleducata che fa chissà cosa con un ragazzo inesistente. Perché gli diede le spalle e lo abbandonò ai suoi sproloqui, che sembravano non richiedere la presenza di un interlocutore: proseguivano anche in assenza di Mary.
Il suo passo adesso era più svelto, mentre si allontanava borbottando: “Spero che il tuo bastone abbia un motore a propulsione difettoso, imbecille, ignorante, cafone d’un vecchiaccio!”. Gli aggetti che gli affibbiò furono molti di più, a dire il vero, ma io ho preferito riportarvi soltanto i più “cortesi”.
Mary marciava adesso a testa bassa, a passi svelti, senza guardarsi intorno,
così non si accorse di un ragazzo che le camminava davanti: gli finì addosso.
Questo si voltò sorpreso verso di lei, mentre lei con lo stesso stato d’animo
solleva lo sguardo su di lui.
“Ma non guardi dove cammini?”, esclamarono infastiditi entrambi.
Lui aveva due splendidi occhi castani, somigliavano al cioccolato, e per questo sembravano davvero molto buoni! Lei invece aveva un viso liscio e insolito, con un’espressione molto perspicace. Ma nessuno dei due si accorse di questi particolari dell’altro. Si oltrepassarono in fretta mandandosi vicendevolmente a quel paese.
Mary era esausta e senza speranza. Eppure quella mattina si era svegliata con così tante buone intenzioni! Le era sembrato di possedere energie inesauribili, il potere di portare nella propria vita ciò che desiderava, di poterla cambiare in meglio in ogni momento, la vita le sorrideva e voleva donare questi sorrisi a chiunque incontrasse, e aveva addirittura pensato di poter incontrare il suo grande amore! O qualcosa che gli si assomigliasse, per un po’…
E invece, si ritrovava sola e disperata, con una certa rabbia dentro che sarebbe potuta rigettarsi anche su un gattino indifeso, se questo le avesse tagliato la strada proprio in quel momento, e avesse persino osato avere il pelo nero! Non sapeva che il “pelo” va al chilo? Con tutto il suo pelo avrebbe guadagnato i suoi tre successivi pasti! Peggio per lui, che era incappato sul suo cammino credendo di poterle portare sfortuna.
Sospirò e si lasciò scivolare sul bordo del marciapiede. Il caldo la opprimeva e i suoi piedi pulsavano di dolore. In testa sembrava che qualcuno avesse aperto una discoteca con musica house a tutto volume. Nel cuore invece… le sembrava che fosse già giunto l’inverno.
Cominciò a piangere.
Se ne restò lì seduta per molto tempo a piangere. Così tanto che ad un certo punto le lacrime smisero si scorrergli in viso anche se lei si sentiva ancora triste e disperata.
Come finirà quest’oggi?, si chiese. E domani? Come farò a far sì che non sia come oggi?
Di colpo riacquistò le forze, come se quella domanda fosse stata la pillola della vitalità. Si alzò e riprese il suo cammino, riprendendo a scrutare i negozi lì intorno. Qualcosa l’avrebbe trovata, se non oggi, allora domani e se non domani un giorno! E se non l’avesse trovata, se la sarebbe fabbricata da sé. Si mise a ridere per questo suo pensiero e così riacquistò anche l’ironia.
D’improvvisò sentì piangere. A pochi metri da lei una bambina strillava perché tre altri bambini le avevano fatto cadere il gelato ed ora correvano ridacchiando via da lei. Mary la raggiunse e le s’inginocchiò vicino.
“Le tue lacrime non faranno tornare il tuo gelato”, le disse.
La bambina la osservò con sguardo truce, come se volesse ribatterle: ah, ah, ah! Ci volevi tu a dirmelo?
Mary si sentì stupida e ogni sua parola le sembrò banale e scontata, ma si riprese subito e proseguì.
“Io lo so, perché anch’io voglio qualcosa che non posso avere se continuo a piangere”.
“E cosa vuoi?”, le chiese allora la bambina.
“Voglio… voglio un lavoro. Ma non riesco a trovarlo come lo vorrei io, neppure come non lo vorrei a dire il vero…”.
Ora Mary sembrava parlare più a sé che alla bambina.
“Ma io voglio il mio gelato. Perché me lo hanno fatto cadere?”.
“E perché non mi prendono senza esperienza?”.
“Cosa?”, domandò la bambina confusa che in compenso smise di piangere. La stranezza dell’adulta che le stava dinnanzi l’aveva distratta dalla sua “disperazione”.
“Oh, niente, niente…”, si precipitò a correggersi Mary. Poi guardò la bambina attentamente negli occhi. “Dove tua madre?”.
“E’ la proprietaria della gelateria”, e così rispondendo indicò la gelateria a pochi passi da loro, che Mary non aveva ancora notato. Ma ora era lei ad essere perplessa.
“Tua madre è la proprietaria di una gelateria? E perché non ti fai fare un altro gelato da lei?”.
“Perché non me lo darà. Sono grassa per lei. Uno alla settimana è sufficiente”.
“Ma tu non lo hai mangiato”.
“Non mi crederà. Penserà che stia mentendo”.
Mary ci pensò su mentre s’infilava le mani in tasca e toccandolo le venne un’idea. Lo tirò fuori e lo porse alla bambina.
“Non hai più un gelato, ma se vuoi in cambio puoi avere questo”.
“Ma non guardi dove cammini?”, esclamarono infastiditi entrambi.
Lui aveva due splendidi occhi castani, somigliavano al cioccolato, e per questo sembravano davvero molto buoni! Lei invece aveva un viso liscio e insolito, con un’espressione molto perspicace. Ma nessuno dei due si accorse di questi particolari dell’altro. Si oltrepassarono in fretta mandandosi vicendevolmente a quel paese.
Mary era esausta e senza speranza. Eppure quella mattina si era svegliata con così tante buone intenzioni! Le era sembrato di possedere energie inesauribili, il potere di portare nella propria vita ciò che desiderava, di poterla cambiare in meglio in ogni momento, la vita le sorrideva e voleva donare questi sorrisi a chiunque incontrasse, e aveva addirittura pensato di poter incontrare il suo grande amore! O qualcosa che gli si assomigliasse, per un po’…
E invece, si ritrovava sola e disperata, con una certa rabbia dentro che sarebbe potuta rigettarsi anche su un gattino indifeso, se questo le avesse tagliato la strada proprio in quel momento, e avesse persino osato avere il pelo nero! Non sapeva che il “pelo” va al chilo? Con tutto il suo pelo avrebbe guadagnato i suoi tre successivi pasti! Peggio per lui, che era incappato sul suo cammino credendo di poterle portare sfortuna.
Sospirò e si lasciò scivolare sul bordo del marciapiede. Il caldo la opprimeva e i suoi piedi pulsavano di dolore. In testa sembrava che qualcuno avesse aperto una discoteca con musica house a tutto volume. Nel cuore invece… le sembrava che fosse già giunto l’inverno.
Cominciò a piangere.
Se ne restò lì seduta per molto tempo a piangere. Così tanto che ad un certo punto le lacrime smisero si scorrergli in viso anche se lei si sentiva ancora triste e disperata.
Come finirà quest’oggi?, si chiese. E domani? Come farò a far sì che non sia come oggi?
Di colpo riacquistò le forze, come se quella domanda fosse stata la pillola della vitalità. Si alzò e riprese il suo cammino, riprendendo a scrutare i negozi lì intorno. Qualcosa l’avrebbe trovata, se non oggi, allora domani e se non domani un giorno! E se non l’avesse trovata, se la sarebbe fabbricata da sé. Si mise a ridere per questo suo pensiero e così riacquistò anche l’ironia.
D’improvvisò sentì piangere. A pochi metri da lei una bambina strillava perché tre altri bambini le avevano fatto cadere il gelato ed ora correvano ridacchiando via da lei. Mary la raggiunse e le s’inginocchiò vicino.
“Le tue lacrime non faranno tornare il tuo gelato”, le disse.
La bambina la osservò con sguardo truce, come se volesse ribatterle: ah, ah, ah! Ci volevi tu a dirmelo?
Mary si sentì stupida e ogni sua parola le sembrò banale e scontata, ma si riprese subito e proseguì.
“Io lo so, perché anch’io voglio qualcosa che non posso avere se continuo a piangere”.
“E cosa vuoi?”, le chiese allora la bambina.
“Voglio… voglio un lavoro. Ma non riesco a trovarlo come lo vorrei io, neppure come non lo vorrei a dire il vero…”.
Ora Mary sembrava parlare più a sé che alla bambina.
“Ma io voglio il mio gelato. Perché me lo hanno fatto cadere?”.
“E perché non mi prendono senza esperienza?”.
“Cosa?”, domandò la bambina confusa che in compenso smise di piangere. La stranezza dell’adulta che le stava dinnanzi l’aveva distratta dalla sua “disperazione”.
“Oh, niente, niente…”, si precipitò a correggersi Mary. Poi guardò la bambina attentamente negli occhi. “Dove tua madre?”.
“E’ la proprietaria della gelateria”, e così rispondendo indicò la gelateria a pochi passi da loro, che Mary non aveva ancora notato. Ma ora era lei ad essere perplessa.
“Tua madre è la proprietaria di una gelateria? E perché non ti fai fare un altro gelato da lei?”.
“Perché non me lo darà. Sono grassa per lei. Uno alla settimana è sufficiente”.
“Ma tu non lo hai mangiato”.
“Non mi crederà. Penserà che stia mentendo”.
Mary ci pensò su mentre s’infilava le mani in tasca e toccandolo le venne un’idea. Lo tirò fuori e lo porse alla bambina.
“Non hai più un gelato, ma se vuoi in cambio puoi avere questo”.
Mary si sentiva soddisfatta adesso, mentre riprendeva il suo cammino. Quei 15
euro per quel portachiavi-peluche erano serviti a far tornare il sorriso a una
bambina. I peluche funzionavano ancora.
Passò accanto a un bar e seduto su uno dei tavolini all’esterno notò un viso familiare. Dovette rifletterci un bel po’ per ricordarsi che quella mattina erano finiti l’uno contro l’altro. Che coincidenza, pensò e lo superò. Tre passi e si fermò di colpo.
“Non hai trovato un lavoro oggi, ma se vuoi puoi avere in cambio una diversa possibilità”, si disse.
Tornò sui suoi passi e raggiunse il ragazzo che da solo si beveva un caffè leggendo il giornale.
“Ci sarà una buona notizia, lì in mezzo?”, esclamò Mary.
Il ragazzo sollevò il suo sguardo su di lei, stavolta senza fretta né con irritazione, e si guardarono veramente. Mary si sorprese della dolcezza che emanava, mentre lui della intelligenza che trasmetteva.
“Possiamo cercarla insieme”, rispose il ragazzo. “O al massimo, ne scriveremo una noi”.
Mary allora si sedette al suo tavolo.
“Ci siamo già visti da qualche altra parte?”, domandò lui scrutandola attentamente.
“No, credo che non ci siamo mai visti prima… come ora”, rispose Mary di nuovo piena di speranze.
Passò accanto a un bar e seduto su uno dei tavolini all’esterno notò un viso familiare. Dovette rifletterci un bel po’ per ricordarsi che quella mattina erano finiti l’uno contro l’altro. Che coincidenza, pensò e lo superò. Tre passi e si fermò di colpo.
“Non hai trovato un lavoro oggi, ma se vuoi puoi avere in cambio una diversa possibilità”, si disse.
Tornò sui suoi passi e raggiunse il ragazzo che da solo si beveva un caffè leggendo il giornale.
“Ci sarà una buona notizia, lì in mezzo?”, esclamò Mary.
Il ragazzo sollevò il suo sguardo su di lei, stavolta senza fretta né con irritazione, e si guardarono veramente. Mary si sorprese della dolcezza che emanava, mentre lui della intelligenza che trasmetteva.
“Possiamo cercarla insieme”, rispose il ragazzo. “O al massimo, ne scriveremo una noi”.
Mary allora si sedette al suo tavolo.
“Ci siamo già visti da qualche altra parte?”, domandò lui scrutandola attentamente.
“No, credo che non ci siamo mai visti prima… come ora”, rispose Mary di nuovo piena di speranze.
6 PER UN BACIO
Era
un giorno di festa.
Mimmo
era sulla cima di una scala, al centro del suo negozio di bomboniere, intento a
sistemare e rifinire le decorazioni. Il suo viso era imbronciato, come se le
disapprovasse. Concentrato com’era, non si accorse dell’arrivo di Sara.
Sara
era slanciata ma con un corpo formoso, bionda con occhi chiari e grandi, dal
viso delicato e… di un altro pianeta. Nel vero senso del termine.
Sara
proveniva da Gliese581g (nome tecnico poco carino dato dai nostri studiosi del
cielo) distante da noi 20 anni luce. Un pianeta molto simile alla Terra.
Gliese581g,
noi terrestri, lo avevamo scoperto cinquant’anni addietro. Mentre gli abitanti
di Gliese581g sapevano di noi da più di mille anni, ormai. Alla domanda di
Mimmo, del perché non fossero giunti prima sulla Terra, dato che le conoscenze
e i mezzi per farlo li possedevano già, aveva risposto: “Eravamo felici anche
senza incontrarvi”.
Sara
adesso si avvicinava lentamente e silenziosamente allungava una mano sulla
scala sotto a Mimmo.
Sara non era il suo vero nome. Lo aveva scelto perché Sara era stata la prima
umana incontrata al suo arrivo e anche perché, secondo il suo parere, gli umani
non sarebbe stati in grado di pronunciarlo. La loro lingua era troppo
complicata per noi, almeno per ora, non eravamo pronti.
Sara
sfiorò il piede della scala… I fuochi d’artificio, provenienti dalla piazza ad
un isolato da lì, destarono l’attenzione di Mimmo, che si accorse d’improvviso
di lei.
“Traballava”,
rispose lei ad un muto punto interrogativo. “Voglio aiutarti”.
Mimmo
scese dalla scala e si avviò per riporla nel ripostiglio.
“Ho
finito”, disse e riprese posto dietro al bancone. “Perché te ne stai lì in
piedi a fissarmi? Perché non sei in piazza?”.
“Sono
anche di là”, rispose lei.
“Non
mi piace quando fai queste cose”.
“A
me non piace stare lontana da te. Ma tu mi hai detto che sarebbe stato
maleducato non presenziare alla festa”.
“Che
festa sarebbe senza la festeggiata?”.
“Non
l’ho chiesta io”.
“Non
è comunque carino esserti divisa in due”.
“Anche
voi lo dite spesso”.
“Ma
non in senso letterale. Alla fine scegliamo sempre da che parte stare”.
“Solo
perché non potete fare altrimenti”.
Mimmo
accese le luci della vetrina.
“Io
non ti voglio qui”.
“Questo
non sembra molto carino da dirsi”.
“Infatti, non voglio essere carino”.
“Perché
tu puoi essere maleducato ed io no?”.
Mimmo
aggirò il bancone, prese Sara per un braccio e la trascinò verso l’uscita.
“Li
ferirai”.
“Chi
è che nella vita non ha mai ferito qualcun altro?”, esclamò lei.
Mimmo
la osservò per un momento. Una donna con un passeggino si soffermò a
contemplare la vetrina. Non poteva sapere che fosse a sua volta guardata. Mimmo
attese che andasse via, prima di replicare, con tono mesto ma deciso: “Mi
ferirai e non t’importa, nonostante non fai altro che sostenere che
preferiresti stare sempre con me”.
“Perché
tu sei il mio umano preferito”, rispose lei con semplicità. Tutte le sue
risposte lo erano: facili e distaccate, e per questo con un retro gusto
surreale. Nonostante le apparenze, era evidente che lei non fosse di qui…
“Perché?”.
Sara
gli accarezzò una guancia. Poi si soffermò sulle labbra.
“Noi non produciamo ossitocina. I nostri baci non creano dipendenza… i tuoi,
sì”.
Gli
si accostò con le labbra, ma Mimmo si scansò alla svelta. Aprì la porta del suo
negozio e dalla sua soglia si fermò ad osservare un grande flusso di gente che
si dirigeva verso la stessa direzione, erano tutti agghindati, sembravano
felici e pieni di aspettativi, alcuni canticchiavano… fra loro c’erano molti
bambini.
Il
suo viso da duro divenne di creta e gli s’inumidirono gli occhi.
“Non
puoi farlo. Non è giusto”.
“Io
non posso restare”, rispose lei come un’ovvietà.
“Si
sopravvive alle separazioni”.
“Avrei
sempre la tentazione di ritornate da te. E non posso permettermelo”.
“Allora
Riduci soltanto me”.
“Potrei
cercare le tue labbra in qualche altro umano. Non posso rischiare”.
Mimmo
si afflosciò sulla porta. Si portò le mani al viso e scoppiò in violenti e
imbarazzanti singhiozzi, ma non gl’importava di come appariva. Non gl’importava
se avrebbe dovuto prendere di petto la situazione come un uomo avrebbe dovuto fare
anziché piangere. Non gl’importava perché aveva già tentato e… non aveva più
idee. E si sentiva piccolo… piccolo come una briciola di pane in un panificio.
“Dovresti
venire anche tu alla festa”, disse lei.
“Non
c’è nulla da festeggiare”.
“Io
sono anche di là”.
“Tu
non te la meriti. Hai promesso parole vuote. Ci hai riempito di false speranze.
Ci hai illuso con la consapevolezza di farlo e di volerlo fare, per raggiungere
i tuoi scopi. Non ti è mai importato di altro. E ora che non ti serviamo più,
sei pronta a riciclarci senza il minimo indugio, spietatamente, come
schiacciare un brufolo dispettoso”.
“Perché
ti stupisci tanto? Non è ciò che fanno da anni e anni coloro che voi chiamate
“politici”? E loro… sono come voi”.
Mimmo
non rispose. Sara
allora gli si accostò all’orecchio. Inspirò a pieni polmoni il suo profumo. “Selvaggio.
Hai un non so che di selvaggio che mi ammalia… Anche il vostro odore crea
dipendenza? Saranno i testosteroni?”.
Mimmo
le afferrò il viso e la baciò con disperazione: l’ultima sua speranza. L’ultimo
tentativo. “Ti
prego”, implorò poi. “Liberami da questo peso. Vai via, senza Ridurci. O
portami con te”.
“Non
sopravvivesti”.
Sara
lo baciò di nuovo e Mimmo la lasciò fare, per dieci minuti buoni, lei sembrava
sperimentare la sua bocca… e quella di lui.
“Non
c’è niente di paragonabile su Gliese581g”, gli alitò. “Grazie. Mi hai fatto
provare anche il famoso – qui tra di voi – “bacio d’addio”. E fa male… sì, fa
male come dite, anzi molto, davvero molto di più. Le vostre parole non rendono
l’idea di quando brucino ora le mie labbra alla tua futura mancanza su di esse.
Eppure, non baratterei per nulla nell’universo quest’attimo… nonostante il dolore
che ha provocato. È strano”.
“È
amore”.
“Ti
amo?”.
“Se
deciderai di sopportare la mia mancanza… e di andare via senza Ridurci, per il
nostro bene, per me, la risposta è sì”.
Sara
storse il naso. “Che
peccato!”, esclamò. “Questo non sono riuscita a provarlo”.
Si
staccò da Mimmo e uscì dal negozio. Si lasciò per un momento accarezzare dai
raggi del sole. “È una delle più belle stelle”, sentenziò. “Siete fortunati ad averla così
vicino”.
“Sara?”,
la chiamò Mimmo, senza sapere esattamente cosa chiederle, come supplicarla
ancora…
“Vi
piacerà”, affermò invece lei. “Ridursi a molecole e ricominciare daccapo, vi
piacerà. Non chiedete da sempre di poter ricominciare? Non chiedete da secoli
una possibilità per salvare il mondo perché – secondo il vostro parere comune –
“sta andando a rotoli”?.
Mimmo
non seppe replicare nulla. Le sue gambe cedettero e si ritrovò seduto sul
marciapiede, solo, distrutto e addolorato; Ma anche impotente e soprattutto,
sì, soprattutto responsabile. Questo, mentre Sara raggiungeva la festeggiata
nella piazza ad un isolato dal negozio di bomboniere…
7 SOLO, PICCOLI, ERRORI...
Il
capitano della nave ha appena ordinato di levare l’ancora. E' un uomo
scorbutico, con la barba lunga, tipo Babbo Natale, e con i capelli sparati,
come Einstein dopo un esperimento non riuscito. Sun lo osserva da lontano. Un giorno sarebbe voluto diventare proprio come lui.
L’autorevole capitano di una grande nave da crociera. Sì, un giorno avrei preso
il suo posto. Il capitano si sposta verso il timoniere, per verificare il suo operato. Il
timoniere è giovane, non come me, io lo sono di più. Ha un cappello di paglia
in testa e un tatuaggio raffigurante un teschio sul braccio, come i pirati.
Nonostante ciò, ha timore del suo capitano. Gli porta rispetto. Un giorno
avrebbe obbedito ai miei comandi. Un marinaio, Simon, arriva correndo. “Iceberg, in vista!”, urla. “Iceberg a
venti minuti di marcia. Iceberg alla nostra destra”. Il capitano afferra un cannocchiale e guarda l’orizzonte. La sua faccia
sbianca.
“Sentito?”, strilla al timoniere. “Vira a destra!”.
Il timoniere ha davanti a sé due timoni. Dopo una rapida occhiata, si getta sul
più vicino e vira a sinistra, perché nelle barche a vela devi girare il timone
dalla parte opposta a quella in cui vorresti andare. Il problema è risolto. Il pericolo è stato scampato. il marinaio, Simon, esce dalla stazione di comando per confrontarsi di nuovo
con la vedetta. Simon è un uomo dalla notevole esperienza. E' in marina da più
di cinquant’anni ormai. Ha sempre guidato le sue amate barche a vela, perciò
questa per lui è una novità. Lo è per tutti, a dire il vero. Per me lo è in
assoluto. Non sono mai salito prima d’ora a bordo di una nave. Il capitano riprende ad osservare l’orizzonte e nell’attimo esatto in cui si
volta preoccupato verso il timoniere, rientra Simon gridando: “Pericolo,
schianto entro sette minuti!”.
Hanno sbagliato a virare. Ora si stanno dirigendo spediti verso l’iceberg.
Perché questa non è una barca a vela, ma a motori, e funziona diversamente.
Nelle navi a motori si vira nel verso in cui s’intende girare. E' il primo
viaggio di questa nave e loro non sno stati istruiti a dovere. Non sono
l’equipaggio adatto a questo viaggio. Il timoniere si precipita a correggere il tiro. Vira immediatamente dal lato
opposto. E' tutto inutile, è ormai troppo tardi… impotenti vedono la nave
urtare l’iceberg. Lo schianto è violento. Davvero ma davvero violento. Sun si spaventa molto,
tanto che vorrebbe correre a farsi abbracciare e confortare dalla madre. Ma
rimane al proprio posto, sono un uomo ormai. Il futuro capitano della nave! E
non posso…
“Josh!”, mi chiamò. “Basta giocare con quei modellini! È ora di andare a
cenare”.
“Sun!”, le replicai. “Voglio che mi chiami Sun, come il sole!”.
“Va bene! Va bene!”, mi rassicurò frettolosamente, mentre mi afferrava per le
spalle e mi trascinava fuori dalla cabina. “Ma ora andiamo a cena. Tuo padre e
i tuoi fratelli ci stanno già aspettando. Come al solito, siamo i due
ritardatari”.
“Devo prima terminare la storia”.
“Dopo, Josh…”
“Mamma!”.
“Sun, sì, dopo Sun”.
Percorrevamo a passi veloci lo stretto corridoio, completamente bianco,
sembrava un tubo dell’acqua. Lo immaginai riempito da quest’ultima… “Ma dopo sarà tardi!”.
“Ti permetterò di restare sveglio un po’ più a lungo, stanotte, ok?”.
Eravamo giunti nella sala ristorante. Un enorme lampadario pendeva dal
soffitto. Un’orchestra suonava sopra un piccolo palchetto rialzato. C’era
tantissima gente seduta ai tavoli. Mamma avvistò papà e i miei fratelli. “Andiamo”, esclamò.
“No, dopo non ci sarà tempo. Sarà tardi. Dobbiamo avvisarlo subito”.
“Avvisare chi?”, mi chiese distrattamente, mentre rifiutava un drink che gli
offriva una cameriera, con un vassoio pieno di bicchieri in equilibro sulla sua
mano aperta.
“Il timoniere. Sbaglierà a virare e noi affonderemo”.
Mamma si fermò all’improvviso. Mi s’inginocchiò di fronte, mi puntò un dito in
faccia e tutta arrabbiata mi rimproverò, tra i denti: “Non dire mai più una
cosa del genere. Quante volte ti ho detto che la parola è uno strumento
potente? Che ciò che diciamo ad alta voce, può tramutarsi in realtà?”.
“Forse, comunque, ci salveremo. Non lo so, per questo devo finire la storia…”.
“Smettila!”, m’interruppe. “Questa nave è inaffondabile!”.
Mi tirò per la manica e mi sospinse verso la sedia. Ci sedemmo con la nostra
famiglia e iniziammo a mangiare.
“Cosa c’è?”, chiese Alex, notando il mio broncio. Aveva nove anni, due più di
me.
Chissà cosa cercava invece di spegnere il vento…
Forse il sole, oscurandolo alla nostra vista, con i nuvoloni che si trascinava sempre dietro.
Forse il sole, oscurandolo alla nostra vista, con i nuvoloni che si trascinava sempre dietro.
O forse noi.
Del resto, molti erano stati i tifoni ad aver spento milioni di umani, nei millenni passati sino ad oggi, e numerosi altri ne sarebbero spirati nel futuro: ma noi eravamo ancora qui e forse anche domani.
Chissà quanto ci saremo consumati noi…
Il vento si è ora improvvisamente placato.
Le nuvole lo hanno diligentemente seguito, ovunque sia andato ad infuriare o ad ansimare, senza domandare.
Forse lo amano.
Forse è il loro respiro.
Il sole intanto è puntualmente riapparso, in alto, su tetti e teste: i primi costruiti da noi, per noi; le seconde da Dio per alcuni, dal Caso per altri, in ogni modo, per qualcosa o per nulla, sono state create anche queste per noi.
E gli umani, sì, sono ancora qui… forse finché sapranno sorprendersi a festeggiare il proprio compleanno dalla sua privata candela magica.
Soffio verso il sole: tanti auguri a noi!
Del resto, molti erano stati i tifoni ad aver spento milioni di umani, nei millenni passati sino ad oggi, e numerosi altri ne sarebbero spirati nel futuro: ma noi eravamo ancora qui e forse anche domani.
Chissà quanto ci saremo consumati noi…
Il vento si è ora improvvisamente placato.
Le nuvole lo hanno diligentemente seguito, ovunque sia andato ad infuriare o ad ansimare, senza domandare.
Forse lo amano.
Forse è il loro respiro.
Il sole intanto è puntualmente riapparso, in alto, su tetti e teste: i primi costruiti da noi, per noi; le seconde da Dio per alcuni, dal Caso per altri, in ogni modo, per qualcosa o per nulla, sono state create anche queste per noi.
E gli umani, sì, sono ancora qui… forse finché sapranno sorprendersi a festeggiare il proprio compleanno dalla sua privata candela magica.
Soffio verso il sole: tanti auguri a noi!
9 TOCCO
Non
era carina, non era un genio e neppure carismatica. Eppure, aveva qualcosa… un
qualcosa che mi scombussolava, in sua compagnia ma anche in sua assenza.
Non so esattamente cosa mi mancasse di lei, forse nulla di particolare, forse
semplicemente la sua essenza, forse era solo una mia proiezione, forse… ma ogni
volta faceva male. Saperla da qualche parte nel mio stesso mondo e rendersi
conto che per assurde e banali ragioni io mi costringevo ad una quotidianità
distante da lei.
Respiravamo la stessa aria e nello stesso momento, ma c’erano ore interminabili
in cui dovevo convincermi a non cercarla, a lasciarla respirare lontano da me.
E sapevo che potevo vivere anche se lei non esistesse, come altrettanto lei
poteva fare se io non fossi mai nato o non mi avesse mai conosciuto, e forse
era proprio questo che mi disturbava profondamente.
Io non volevo fosse tanto facile vivere separati, io la volevo qui… adesso… subito! La volevo finché la passione ci avrebbe indotto a pensare che soltanto insieme potevamo realmente respirare a pieni polmoni.
Un'altra cosa che non capivo, era il motivo per il quale anch’io le piacessi. In qualche modo eravamo legati. In qualche modo l’idea dell’altro ci rimbombava in testa e il nostro corpo ci chiamava incessantemente.
E quando c’incontravamo anche fisicamente… niente. Non facevamo niente. Nessuno aveva il coraggio di oltrepassare la barriera dell’immaginazione. Quell’idea magica e perfetta che avevamo creato dell’altro.
Chiacchieravamo. Almeno questo. Ma in realtà neppure di ciò che realmente ci premeva. Non domandavamo cosa c’interessasse davvero.
Ogni volta avrei voluto allungare una mano… oh, abbracciami!, avrei voluto quasi supplicarla o magari farlo da me e chi se ne fregava delle sue possibili obiezioni! No, a me invece importavano. Forse più per me che per lei, effettivamente. Prestavo più attenzione a non ferire il mio ego che non i suoi sentimenti.
Ma lei esisteva e finché sarebbe esistita io non avrei mai avuto pace. Lo so, cosa state pensando adesso: questa storia finisce con me che la uccido. Con me che la tolgo dalla faccia della terra per liberarmi finalmente dal suo pensiero fisso. Sono uno psicopatico? Hmm… io mi definirei piuttosto un tossico. Sì, un tossico e lei era la mia droga. Ormai dipendevo da lei. E sapete ciò cosa significava?
Domandate a un tossico di gettare nel water la sua indispensabile polvere bianca. Lo farebbe secondo voi?
No, piuttosto si getterebbe lui. E infondo, è ciò che fa ogni volta che l’aspira o se la inietta: si getta in essa. L’astinenza per qualcosa, qualsiasi sia questa cosa, è l'ebbrezza di smarrirsi in ciò che sai non ti farà bene ma sai anche che è l’unica cosa sulla quale la ragione non ha il potere di vincere… E a noi, sostanzialmente, la Ragione sta proprio antipatica! Per questo cerchiamo l’Amore: molti sostengono che sappia batterla. E quando ci accorgiamo che non sempre è così, allora cerchiamo il nostro alleato in qualcun altro, o qualcos’altro…
Ecco, lei era così per me. Pertanto, potevo mai eliminarla? Finché ero di lei assuefatto, mai, proprio mai. Ma lei non mi lasciava inebriarmi del tutto di quella passione. E così continuavo a languire per lei… senza far nulla. Finché un giorno, mentre guardavamo il mare infrangersi sugli scogli, da un’altura a pochi metri dalla spiaggia, mi chiese: “Sai perché non riesci a toccarmi?”.
A sorprendermi non fu la sua domanda, ma l’accusa nei miei confronti.
“Anche tu non riesci a toccarmi”.
Rise.
“Va bene”, acconsentì infine. “E sai anche che non potremo mai?”.
Questo mi ferì. Iniziai a sentire la nausea e la testa prese a girarmi pericolosamente. Mi aggrappai alla ringhiera improvvisata, costruita con quattro bastoni di legno legati tra loro con del nastro adesivo.
“Non va bene”, disse mesta. “Questo ti farà sempre soffrire. Sempre di più. Ed io non voglio, per questo ti ho portato qui. Per questo credo che sia giunto il momento”.
“Il momento per cosa?”.
“Guarda laggiù”, disse allungando un braccio in direzione della spiaggia. “Guarda quante belle e simpatiche, e probabilmente anche argute, ragazze ci sono in attesa… in attesa del loro amore. E il loro amore potresti essere tu”.
“No, non potrei. Io ho già il mio amore”, sostenni risoluto, pensando così d’esser molto romantico. Invece rise di nuovo, mentre scuoteva la testa.
“Vorresti tanto che lo fossi per davvero, è così? Ma non potrò mai esserlo se non possiamo neppure abbracciarci”.
Era questo il problema? L’avrei abbracciata allora! Ma lei si allontanò di qualche passo da me, nell’esatto istante in cui avevo finalmente racimolato il coraggio per rischiare. Scavalcò la ringhiera ed ora era lì, pericolosamente in bilico, un passo falso e… puash! Sarebbe precipitata in mare.
Non ne ero preoccupato. Non era per niente alto. Non si sarebbe fatta nulla. Nonostante ciò ero terribilmente ansioso.
“E’ arrivato il momento”, ripeté. “Ma siccome tu non vuoi convincerti che lo sia, farò io ciò che dovresti fare tu”.
Continuavo a non capire. Lei si voltò e mi guardò dritta negli occhi.
“Voglio liberarti da me”.
“Io non voglio liberarmi di te”.
“Lo so, è per questo che lo farò io”.
Allungai un braccio nel tentativo di afferrarla, era la prima volta che tentavo concretamente di toccarla, perché in passato, anche solo sfiorarla mi aveva provocato violenti capogiri, e la paura d’esser rifiutato mi aveva quasi annientato. Pertanto, non avrei mai immaginato che… che la mia mano fallisse nel tentativo. Voglio dire, non in questo modo.
“Non puoi toccarmi”, disse lei. “Non puoi toccare un’illusione. Ma laggiù ci sono tante occasioni che aspettano te. Non esiste la donna perfetta. Né tu lo sarai mai per alcuna di esse. Forse la tua passione morirà dopo un giorno. Forse ti schiaffeggerà al tuo primo tentativo. Forse soffrirai più di quanto non amerai. Ma quel piccolo momento di felicità, varrà più, molto ma molto più, di me. Di me non puoi continuare a vivere: ti annullerò”.
Incominciai a piangere.
“No, ti prego. Non sono pronto. Ti prego, non andartene. Non ancora!”.
Rise.
“Sei grande per le amiche immaginarie, ormai. Sei un uomo. Devi rischiare”.
E si gettò dall’altura. Mi protesi verso la sporgenza, e sgomento osservai che il suo corpo non s’infrangeva sull’acqua, ma svaniva sotto i miei occhi.
Svanì poco prima di toccarlo… oh, neppure il mare la poteva avere!
Non era carina, non era un genio e neppure carismatica. Eppure, aveva qualcosa… un qualcosa che mi scombussolava, in sua compagnia ma anche in sua assenza.
Era la paura di rischiare.
Ma ora mi ero disintossicato. Ora ero un umano e gli umani piangono di continuo tanto quanto ridono, o forse di più, ma possono toccare tutto, persino i propri sbagli.
No, non avevo più alcun rimpianto, perché finalmente… toccavo la vita.
Io non volevo fosse tanto facile vivere separati, io la volevo qui… adesso… subito! La volevo finché la passione ci avrebbe indotto a pensare che soltanto insieme potevamo realmente respirare a pieni polmoni.
Un'altra cosa che non capivo, era il motivo per il quale anch’io le piacessi. In qualche modo eravamo legati. In qualche modo l’idea dell’altro ci rimbombava in testa e il nostro corpo ci chiamava incessantemente.
E quando c’incontravamo anche fisicamente… niente. Non facevamo niente. Nessuno aveva il coraggio di oltrepassare la barriera dell’immaginazione. Quell’idea magica e perfetta che avevamo creato dell’altro.
Chiacchieravamo. Almeno questo. Ma in realtà neppure di ciò che realmente ci premeva. Non domandavamo cosa c’interessasse davvero.
Ogni volta avrei voluto allungare una mano… oh, abbracciami!, avrei voluto quasi supplicarla o magari farlo da me e chi se ne fregava delle sue possibili obiezioni! No, a me invece importavano. Forse più per me che per lei, effettivamente. Prestavo più attenzione a non ferire il mio ego che non i suoi sentimenti.
Ma lei esisteva e finché sarebbe esistita io non avrei mai avuto pace. Lo so, cosa state pensando adesso: questa storia finisce con me che la uccido. Con me che la tolgo dalla faccia della terra per liberarmi finalmente dal suo pensiero fisso. Sono uno psicopatico? Hmm… io mi definirei piuttosto un tossico. Sì, un tossico e lei era la mia droga. Ormai dipendevo da lei. E sapete ciò cosa significava?
Domandate a un tossico di gettare nel water la sua indispensabile polvere bianca. Lo farebbe secondo voi?
No, piuttosto si getterebbe lui. E infondo, è ciò che fa ogni volta che l’aspira o se la inietta: si getta in essa. L’astinenza per qualcosa, qualsiasi sia questa cosa, è l'ebbrezza di smarrirsi in ciò che sai non ti farà bene ma sai anche che è l’unica cosa sulla quale la ragione non ha il potere di vincere… E a noi, sostanzialmente, la Ragione sta proprio antipatica! Per questo cerchiamo l’Amore: molti sostengono che sappia batterla. E quando ci accorgiamo che non sempre è così, allora cerchiamo il nostro alleato in qualcun altro, o qualcos’altro…
Ecco, lei era così per me. Pertanto, potevo mai eliminarla? Finché ero di lei assuefatto, mai, proprio mai. Ma lei non mi lasciava inebriarmi del tutto di quella passione. E così continuavo a languire per lei… senza far nulla. Finché un giorno, mentre guardavamo il mare infrangersi sugli scogli, da un’altura a pochi metri dalla spiaggia, mi chiese: “Sai perché non riesci a toccarmi?”.
A sorprendermi non fu la sua domanda, ma l’accusa nei miei confronti.
“Anche tu non riesci a toccarmi”.
Rise.
“Va bene”, acconsentì infine. “E sai anche che non potremo mai?”.
Questo mi ferì. Iniziai a sentire la nausea e la testa prese a girarmi pericolosamente. Mi aggrappai alla ringhiera improvvisata, costruita con quattro bastoni di legno legati tra loro con del nastro adesivo.
“Non va bene”, disse mesta. “Questo ti farà sempre soffrire. Sempre di più. Ed io non voglio, per questo ti ho portato qui. Per questo credo che sia giunto il momento”.
“Il momento per cosa?”.
“Guarda laggiù”, disse allungando un braccio in direzione della spiaggia. “Guarda quante belle e simpatiche, e probabilmente anche argute, ragazze ci sono in attesa… in attesa del loro amore. E il loro amore potresti essere tu”.
“No, non potrei. Io ho già il mio amore”, sostenni risoluto, pensando così d’esser molto romantico. Invece rise di nuovo, mentre scuoteva la testa.
“Vorresti tanto che lo fossi per davvero, è così? Ma non potrò mai esserlo se non possiamo neppure abbracciarci”.
Era questo il problema? L’avrei abbracciata allora! Ma lei si allontanò di qualche passo da me, nell’esatto istante in cui avevo finalmente racimolato il coraggio per rischiare. Scavalcò la ringhiera ed ora era lì, pericolosamente in bilico, un passo falso e… puash! Sarebbe precipitata in mare.
Non ne ero preoccupato. Non era per niente alto. Non si sarebbe fatta nulla. Nonostante ciò ero terribilmente ansioso.
“E’ arrivato il momento”, ripeté. “Ma siccome tu non vuoi convincerti che lo sia, farò io ciò che dovresti fare tu”.
Continuavo a non capire. Lei si voltò e mi guardò dritta negli occhi.
“Voglio liberarti da me”.
“Io non voglio liberarmi di te”.
“Lo so, è per questo che lo farò io”.
Allungai un braccio nel tentativo di afferrarla, era la prima volta che tentavo concretamente di toccarla, perché in passato, anche solo sfiorarla mi aveva provocato violenti capogiri, e la paura d’esser rifiutato mi aveva quasi annientato. Pertanto, non avrei mai immaginato che… che la mia mano fallisse nel tentativo. Voglio dire, non in questo modo.
“Non puoi toccarmi”, disse lei. “Non puoi toccare un’illusione. Ma laggiù ci sono tante occasioni che aspettano te. Non esiste la donna perfetta. Né tu lo sarai mai per alcuna di esse. Forse la tua passione morirà dopo un giorno. Forse ti schiaffeggerà al tuo primo tentativo. Forse soffrirai più di quanto non amerai. Ma quel piccolo momento di felicità, varrà più, molto ma molto più, di me. Di me non puoi continuare a vivere: ti annullerò”.
Incominciai a piangere.
“No, ti prego. Non sono pronto. Ti prego, non andartene. Non ancora!”.
Rise.
“Sei grande per le amiche immaginarie, ormai. Sei un uomo. Devi rischiare”.
E si gettò dall’altura. Mi protesi verso la sporgenza, e sgomento osservai che il suo corpo non s’infrangeva sull’acqua, ma svaniva sotto i miei occhi.
Svanì poco prima di toccarlo… oh, neppure il mare la poteva avere!
Non era carina, non era un genio e neppure carismatica. Eppure, aveva qualcosa… un qualcosa che mi scombussolava, in sua compagnia ma anche in sua assenza.
Era la paura di rischiare.
Ma ora mi ero disintossicato. Ora ero un umano e gli umani piangono di continuo tanto quanto ridono, o forse di più, ma possono toccare tutto, persino i propri sbagli.
No, non avevo più alcun rimpianto, perché finalmente… toccavo la vita.
10 LA PENNA
Perché non si legge più?
E' una domanda che, in quest'ultimo secolo, in molti si pongono; e si danno
anche un mucchio di risposte differenti, tutte argomentate da causa, effetto e
possibili soluzioni. Alcuni tentano anche di mettere in pratica queste ultime,
ma si smarriscono nei dettagli del portare in fatti concreti l'idea, ancor
prima di constatare se questa possa ottenere dei risultati soddisfacenti o se
non sia invece semplicemente una colossale stupidaggine.
Però, a discutere sono bravi. Tutti sono bravi a parole. Sarà per questo che si dice che in giro ci siano più scrittori che lettori. Chi resiste al fascino dell'espressione e della comunicazione del proprio pensiero a più persone possibili, così da farlo divenire importante, reale, utile, bello, udito? Forse ci si sente poco ascoltati, esattamente come i libri si sentono poco letti? E quindi, in sostanza, ci sono molti oratori e rari ascoltatori.
Ad un'aspirante scrittore, un giorno, domandai: "Cosa leggi?".
Mi rispose: "Io NON leggo".
Ribattei:"E perché mai pensi che gli altri invece dovrebbero leggere... per di più, leggere te?"
"E' quello che fanno anche i cuochi", mi spiegò. "I cuochi cucinano per gli altri non per se stessi".
E' vero, non aveva tutti i torti ma... anche i cuochi prima o poi si nutrono o morirebbero tutti quanti di fame. Pertanto, anche gli scrittori, o gli aspiranti tali, prima o poi, per non morire di "pubblicazione", dovranno leggere, no?
C'è ancora speranza per la lettura: ogni esigenza dev'essere prima o poi soddisfatta, a meno che non s'indica lo sciopero della parola come può esserlo quello della fame. Oh, ecco! Ho capito: è già in corso lo sciopero della lettura. E' per questo che si sta morendo di televisione... di qualcos'altro ci si deve pur cibare, anche se un alimento meno salutare, che porta una serie di spiacevoli conseguenze alla mente, meglio che restare a digiuno... è per sopravvivenza.
Oh, beh, ora c'è da capire contro chi si sta scioperando... avrei anche qualche ipotesi da formulare, ma sono appena stata scoperta a rileggermi... Verrò ora sostituita con una tastiera...
Però, a discutere sono bravi. Tutti sono bravi a parole. Sarà per questo che si dice che in giro ci siano più scrittori che lettori. Chi resiste al fascino dell'espressione e della comunicazione del proprio pensiero a più persone possibili, così da farlo divenire importante, reale, utile, bello, udito? Forse ci si sente poco ascoltati, esattamente come i libri si sentono poco letti? E quindi, in sostanza, ci sono molti oratori e rari ascoltatori.
Ad un'aspirante scrittore, un giorno, domandai: "Cosa leggi?".
Mi rispose: "Io NON leggo".
Ribattei:"E perché mai pensi che gli altri invece dovrebbero leggere... per di più, leggere te?"
"E' quello che fanno anche i cuochi", mi spiegò. "I cuochi cucinano per gli altri non per se stessi".
E' vero, non aveva tutti i torti ma... anche i cuochi prima o poi si nutrono o morirebbero tutti quanti di fame. Pertanto, anche gli scrittori, o gli aspiranti tali, prima o poi, per non morire di "pubblicazione", dovranno leggere, no?
C'è ancora speranza per la lettura: ogni esigenza dev'essere prima o poi soddisfatta, a meno che non s'indica lo sciopero della parola come può esserlo quello della fame. Oh, ecco! Ho capito: è già in corso lo sciopero della lettura. E' per questo che si sta morendo di televisione... di qualcos'altro ci si deve pur cibare, anche se un alimento meno salutare, che porta una serie di spiacevoli conseguenze alla mente, meglio che restare a digiuno... è per sopravvivenza.
Oh, beh, ora c'è da capire contro chi si sta scioperando... avrei anche qualche ipotesi da formulare, ma sono appena stata scoperta a rileggermi... Verrò ora sostituita con una tastiera...
Addio amici-lettori-che-
per-via-dello-sciopero-
non-leggerete-della-mia
dipartita,
La Penna
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